Labirinto – Ep16

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio
Nelle puntate precedenti:
Labirinto – Ep14
Labirinto – EP15
  Ep16 Davide e Fabio restavano in silenzio, il primo intento a seguire la traiettoria più sicura, il secondo a lavorare sul sistema operativo del velivolo per disattivare ogni possibile traccia che potesse svelarne la posizione. Tutto era successo in pochi secondi. Fabio era riuscito a gettare in terra uno dei soldati. Davide era stato pronto nel disarmarlo e a utilizzare l’arma per costringere il pilota a scendere dall’elicottero. – Non riesco a prendere il pieno possesso del sistema – disse Fabio. Davide trasalì. Era la prima volta che lo sentiva parlare. Lo osservò per qualche istante. – Forse non dipendeva da quel segnale – continuò il ragazzo, senza riuscire a nascondere un sorriso. – Quindi mi stai dicendo che ci troveranno presto. – – Esatto, sto dicendo proprio questo. Ed è bello poterlo fare. – Questa volta fu Davide a sorridere. – Il sistema sembra blindato. Ma temo possano inserirsi da un momento all’altro e prendere il controllo. – – O forse stanno già cercando di abbatterci. – replicò Davide, forse più parlando a se stesso. – Dove stiamo andando? – chiese Fabio. Davide sapeva che esisteva un unico posto in cui avrebbe potuto tenersi lontano dall’occhio di quel sistema di controllo. Ed era proprio lì che si stava dirigendo. – Dove il logo occhi non può arrivare. – Centro di detenzione preventiva – Pensavo fossi morta – asserì Monica. Monica aveva seguito con la coda dell’occhio quella figura femminile che si avvicinava. – A quanto pare non è così. – rispose Simona. – Che peccato – replicò l’altra. – Dobbiamo collaborare se vogliamo uscire da qui – continuò Simona. – Forse non ti sei resa conto che il mondo che conoscevi non esiste più. Che non c’è modo di ripristinare quella realtà. E che moriremo qui. – concluse Monica. – Questo è da vedersi. – – Hai un piano? – – Tanto per cominciare movimentare un po’ l’ambiente. – – E pensi che un po’ di rumore possa spaventare una macchina? – – Questa macchina l’abbiamo creata noi. – – No, io non ho progettato questa bestia. – – Hai ragione. Non è alla bestia che voglio parlare, infatti. – Monica sollevò lo sguardo per incrociare quello di Simona. – Queste persone non sono più in grado reagire a nessuna provocazione. Sono spente. – – Probabilmente è così.- – E ci staranno ascoltando. – – È quello che spero. – disse Monica, avvicinando la bocca all’orecchio della sua interlocutrice. – Potremmo parlare al nulla. Quello a cui ti stai aggrappando potrebbe non esistere più, come tutto il resto. – In quel momento i soldati si stavano avvicinando verso di loro, facendosi largo tra i detenuti. – Abbiamo fame! – urlò Simona. Qualcuno si voltò verso di loro, ma senza alcuna convinzione. Nulla sembrava fermare la marcia dei soldati. – Dateci del cibo vero! – urlò ancora Simona. – Cibo, cibo! – iniziò a scandire Monica a voce sempre più alta. – Sì, cibo! – urlò un’altra donna alle loro spalle. In pochi secondi le grida avevano coinvolto la gran parte dei detenuti, molti dei quali iniziarono a spintonarsi e a rivolgere insulti verso i soldati, i quali facevano fatica a raggiungere l’origine di quella che era diventata in pochi secondi una rivolta. Gli stessi soldati sembravano impreparati che una cosa del genere potesse davvero accadere. Il rumore e il vociare divenne sempre più forte. Simona si abbassò sotto la mole delle persone che urlavano. – Esiste un vecchio cavo telefonico nel locale lavanderie, se riusciamo a trovare un dispositivo adatto potremmo provare a raggiungerlo. Solo tu puoi riuscirci. – Monica ricambiò il suo sguardo, senza troppa convinzione. – Dove possiamo trovare un dispositivo – replicò Monica. Simona e Monica si allontanarono dal cuore della sommossa. I soldati erano impegnati a sedare la sommossa. Ma sui loro display che mostravano gli ordini impartiti era comparsa la scritta: interrogare soggetti scatenanti della sommossa. Il messaggio mostrava le foto delle due detenute che avevano scatenato la protesta. Photo by Unsplash

Labirinto – EP15

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Nelle puntate precedenti:
Labirinto – Ep14

Centro di detenzione preventiva

I detenuti erano costantemente sottoposti a un monitoraggio attento e scrupoloso, in cui migliaia di sensori scrutavano ogni loro singolo e impercettibile movimento. Ogni più piccolo dettaglio era utile per tarare il sistema e renderlo sempre più efficace, consentendogli l’azione anche alla parte di popolazione che sembrava non esserne condizionata. I progettisti un tempo erano esseri umani, ma il sistema era diventato sempre più efficiente, sino al punto di essere perfettamente in grado di correggere in perfetta autonomia ogni più piccola problematica. Il progetto si era sviluppato velocemente. E quella in corso era l’ultima fase, la taratura del meccanismo di riprogrammazione. Fase che decretava senza ombra di dubbio quali erano i soggetti immuni al trattamento e per i quali non poteva che esserci una sola soluzione: la soppressione. La fase di analisi in corso serviva a identificare le procedure più profonde di difesa e di necessità di sopravvivenza della mente umana, l’ultimo baluardo al controllo completo degli esseri umani. I detenuti che presentavano maggiori problematiche venivano privati del cibo, del sonno, dell’acqua. Molti di loro impazzivano, ma non prima di aver fornito una serie di informazioni fondamentali per tarare i limiti entro i quali lavorare per la conversione. Simona era seduta in mezzo a centinaia di uomini e donne vestite come lei con un’anonima tuta grigia. Guardava quelle persone che vagavano per l’immenso salone, spaesate, alla ricerca di un viso conosciuto, di un qualcosa che ricordasse loro chi erano. O chi erano stati. Ognuno di loro di sentiva vittima di un errore e della loro paura. Cercò di controllare meglio cosa la circondava. In ogni angolazione era stata posizionata una telecamera munita di sensori. Da quello che conosceva di sensoristica immaginava di trattasse di rilevatori di temperatura, microfoni e chissà cos’altro. Erano stati segregati in quel luogo come topi da laboratorio. Cercava di capire meglio chi fossero le altre persone attorno a lei, cosa la legava a loro, una correlazione, qualcosa che unisse i loro destini. Il suo sguardo venne attratto da chi, come lei, sedeva con le spalle al muro. La maggior parte di loro aveva ormai lo sguardo perso nel vuoto. Non cercava più nulla e nessuno. Lasciò che il suo sguardo scorresse su quei visi. A un certo punto lo sguardo si fermò. Aveva intercettato qualcosa che aveva rimesso in movimento qualcosa nella sua mente. Uno sguardo. Qualcuno che sembrava fissarla. Era una donna. Si rese conto di conoscerla. In quello sguardo c’era qualcosa che non riconosceva in lei. Qualcosa di profondamente oscuro che le fece venire un profondo brivido. Quello sguardo le ricordò suo padre. Il Maestro. In quello stesso istante un sensore aveva rilevato un’anomalia. Photo by Unsplash

Labirinto – Ep14

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Nelle puntate precedenti:
Labirinto – #Ep1 – #Ep12
Labirinto – Ep13
  #Ep14 Davide aveva rubato del cibo da un supermercato, facendo attenzione a eludere le telecamere di sorveglianza, poi si era recato con Fabio in un bosco poco lontano dalla zona abitata. Aveva bisogno di riflettere sul da farsi. Qualcosa nella sua memoria stava tornando a galla. L’ultima immagine che ricordava prima del coma era il rosone di una chiesa. La Cattedrale di Chartres. Ricordava di aver parlato con qualcuno poco prima e di aver scoperto qualcosa di importante. Gli sembrava di aver perso conoscenza per un motivo ben preciso. Qualcosa che in un istante gli aveva fatto perdere conoscenza. I suoi ricordi erano confusi e non riusciva a ricordare. Suggerì a Fabio di riposarsi per poi sfruttare le ore notturne per muoversi. Davide riusciva a percepire il movimento di droni ed elicotteri che scandagliavano la zona e sapeva che prima o poi li avrebbero individuati, perché due sorgenti di calore ferme nel bosco non potevano che attirare l’attenzione dei sensori di rilevamento di temperatura. Era solo una questione di tempo. E sapeva di averne poco. La sua mente però era come immersa in una nebbia intensa. I pochi ricordi si stavano materializzando nella sua mente, ma troppo lentamente. Chiunque fosse Fabio, sapeva che aveva corso dei grossi rischi per salvarlo. E non poteva metterlo ulteriormente in pericolo. Si soffermò a guardare un’antenna montata sulla cima della collina che sovrastava il paese. Si soffermò a osservarla. Non era particolarmente grande, ma sembrava essere stata realizzata da poco. Si voltò e vide che Fabio in quel momento stava ancora dormendo. Decise di salire in cima per vederla da vicino. Era ancora molto provato e non fu facile raggiungere la cima della collina, teneva sotto controllo la posizione dei velivoli in lontananza. L’antenna era molto più grande di quanto sembrasse dal punto in cui l’aveva vista e sembrava costruita con una tecnologia molto moderna, sia per il materiale con il quale era fatta, sia per la forma. Alla base dell’antenna c’era un piccolo fabbricato che probabilmente fungeva da centralina di controllo, ma non vide alcuna porta di accesso e nemmeno indicazioni particolari. In quel momento notò una lucina, pensò a un riflesso, ma si rese conto che si trattava di una microscopica videocamera di sorveglianza. Si scostò dalla visuale della camera e scese verso il paese, ma sentì il rumore di un elicottero che si avvicinava velocemente. Pensò a Fabio, a come avrebbe potuto fare per metterlo in salvo. L’elicottero arrivato sopra di lui e qualcuno dal suo interno gli stava intimando di restare con le mani alzate. Si guardò intorno. Non aveva modo di scappare. Guardò il punto in cui Fabio stava riposando. Vide degli uomini in divisa che lo stavano raggiungendo. Fabio si svegliò all’improvviso. Sentì dei rumori provenienti dalla boscaglia, si scorse per vedere meglio. Erano uomini vestiti di nero che indossavano qualcosa sugli occhi. Riconobbe i visori che quegli uomini indossavano. Li aveva visti nei videogiochi, servivano a rilevare la presenza di forme di vita. E questo voleva dire soltanto una cosa. Li avevano trovati. Si mosse velocemente, salendo versò la cima della collina. Sentiva alle sue spalle il rumore della squadra che irrompeva nel punto in cui fino a pochi secondi prima era nascosto. Avrebbe voluto avere qualche vita in più, ma quella era la sua vita e non un videogioco. Quindi salì lungo il versante della collina, ma si fermò qualche metro prima di raggiungere la cima. Vide Davide che veniva spinto da un uomo con viso glaciale a salire a bordo di un elicottero. A quel punto tutto diventò nero. La crisi piombó su di lui all’improvviso. E iniziò a urlare e a correre in direzione del velivolo. #labirinto

Labirinto – Ep13

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Nelle puntate precedenti:

Labirinto – #Ep1 – #Ep12

LUCCA

In un locale del centro della cittadina toscana, un uomo vestito con una semplice camicia arrotolata sugli avanbracci e dei pantaloni bianchi di cotone porse un biglietto da visita al suo interlocutore.
Sul biglietto faceva mostra di se il logo e il nome dell’azienda per cui lavorava: la Dhk.

A poche decine di metri una donna era arrivata davanti al Duomo per osservare da vicino il disegno del labirinto posto sulla facciata laterale.

La donna si chiama Giada, un tempo lavorava come guida turistica. A seguito della grave crisi economica che aveva colpito il mondo intero aveva dovuto cercare un altro mestiere e qualche mese prima era stata assunta da un’azienda di logistica.
Non ricordava il motivo per il quale provasse la curiosità nei confronti di quell’incisione. Sentiva dentro di lei qualcosa che la spingeva a guardarlo, osservarlo. A toccarlo. Un desiderio ancestrale che proveniva da qualche parte del suo cervello, ma che non riusciva a spiegarsi. Aveva letto in un articolo che esistevano incisioni simili a quella in diverse chiese, molti di quei disegni erano stati creati con mosaici, molti erano andati distrutti nel tempo. Aveva letto che si trattava di una raffigurazione simbolica a cui facevano ricorso i pellegrini che per diversi motivi non potevano raggiungere Gerusalemme per recarsi al Santo Sepolcro. Per qualche assurdo motivo questa storia la attraeva, sentiva come se in una sua vita precedente quell’informazione avesse potuto cambiare qualcosa dentro di lei. Come se si trattasse a sua volta di una linea da seguire. Ma l’unica cosa che aveva in agenda era di riprendere il suo turno di lavoro alla guida di un furgone.

A poche decine di metri da lei l’uomo che aveva ricevuto il biglietto da visita si era congedato dal suo interlocutore, che poche prime lo aveva cercato per proporgli qualcosa di importante e urgente. E in effetti lo era. Raggiunse l’uscita della piazza dell’Anfiteatro e si avviò in direzione del Duomo. In quel momento incrociò lo sguardo di un giovane donna. A colpirlo erano stati forse i suoi capelli rossi, oppure il colore verde dei suoi occhi. Oppure era stato qualcos’altro.

Sede monitoraggio e controllo

Sul monitor degli uffici di controllo del sistema di monitaggio e controllo erano comparse delle anomalie. Non succedeva più da diverso tempo. I responsabili stavano mettendo in campo tutte le risorse disponibili per capire cosa stesse generando quel problema.

I tecnici avevano ipotizzato l’idea che ci fosse una falla nel sistema e che qualcuno o qualcosa la stesse sfruttando per veicolare informazioni. In quel momento l’anomalia proveniva da una cittadina italiana di nome Lucca.

L’anomalia riguardava il comportamento anomalo di due soggetti che sembravano aver infranto per un attimo la rete di influenza del sistema. Sul momento pensarono a un potenziamento del segnale, ma dalle verifiche che in quel punto la potenza del segnale era già al massimo.

I tecnici scandagliarono i video delle telecamere di sicurezza e analizzarono il periodo antecedente rispetto all’anomalia e che riguardava i due soggetti. Notarono che l’uomo aveva avuto un incontro con un’altra persona che però il sistema non era in grado di identificare. La ragazza invece non sembrava essere di particolare interesse, salvo l’interesse che aveva provato osservando una delle incisione presenti sulla facciata del Duomo di Lucca. Il Labirinto. L’ordine fu perentorio. Inserire entrambi i soggetti nella lista numero uno. Quella degli individui che andavano studiati, per poi essere soppressi.

Labirinto – #Ep1 – #Ep12

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#Ep1

Fabio può restare ore a guardare fuori dalla finestra. I suoi genitori sono preoccupati, da un po’ di tempo é cambiato. Fa domande strane. I suoi amici dicono che è pazzo, i suoi medici che è autistico. Fabio però con il computer é un mago. E adora i video giochi. É curioso e ha scoperto un gioco del passato. Il primo tentativo di realtà virtuale. Si chiamava Second Life. Si è costruito un avatar, un personaggio con cui può girare indisturbato in un mondo ormai deserto. Fabio é appassionato anche di radio, un mezzo di comunicazione ormai superato. Le frequenze che un tempo portavano musica sono ormai silenziose. Soltanto in una delle frequenze riusciva a sentire un fruscio diverso dagli altri. I suoi genitori però non gli credevano. Sapeva che presto lo avrebbero riportato dai dottori e gli avrebbero somministrato quelle pillole. Proprio in quel momento dalla radio sentì una voce. Riesci a sentirmi?

#Ep2

Fabio non rispondeva.

“Mi senti?” continuava a ripetere la voce dalla radio.

“Sì” sussurró Fabio. Tratteneva a stento i brividi. Il suono della sua voce che si appropriava del corpo. Una sensazione nuova.

“Dove ti trovi?”

Fabio ricordava le parole dei suoi genitori. Dicevano sempre di non dare confidenza agli sconosciuti. Era molto tempo fa. Prima che tutto cambiasse. Prima che loro cambiassero.

“In Italia”

“Non sei solo, ora ci…”

In quel momento la porta si spalancò e comparve sua madre. Fabio era riuscito ad abbassare il volume della radio.

“Fabio, hai parlato? Mi era sembrato di sentire delle voci”

Fabio scosse il capo e indicò il computer.

“I tuoi stupidi giochi” affermò stancamente Francesca.

In quel momento il monitor del computer si riattivó sulla schermata di Second Life.

Fabio lo fissò per qualche istante. Francesca cercò di capire, ma come tante altre volte non ci riuscì e uscì dalla stanza.

Fabio provava a comporre i pezzi nella sua mente. Forse stava impazzendo, come più volte gli avevano detto i suoi compagni di classe. Non aveva mai visto nessuno in quell’antico gioco virtuale. Ma se la schermata si era avviata, qualcuno doveva esserci.

Fabio si avvicinò al monitor, prese possesso del suo avatar e si mosse lungo la via principale. Osservò le stradine laterali. Erano deserte. Superò il vecchio bar dove un tempo gli utenti si incontravano per conoscere l’anima gemella. Poi sentì un rumore lieve, entrò in una via laterale. Fece qualche passo e poi la vide. Era una donna immersa in un lago di sangue. Ma era ancora viva. E gli stava chiedendo aiuto.

#Ep3

Fabio iniziò a muovere il mouse e riprese possesso del suo avatar. Osservò la ferita sul fianco della donna e cercò di tamponarla con la sua giacca.
Sapeva di avere solo pochi minuti per riuscire a salvarla.
Sentiva la crisi d’ansia arrivare.
Se fosse successo di nuovo lo avrebbero imbottito di farmaci come l’ultima volta.
Cercò di calmarsi e fece sollevare la donna. Una volta in piedi la fece appoggiare alla sua spalla e la accompagnó verso quello che era stato l’ospedale di Second Life.
Nella seconda schermata, accanto a quella del gioco virtuale, cercava tutorial su youtube su come fermare l’emorragia.
Giunti in ospedale, Fabio cercò la scritta “sale operatorie”.
Fece sedere la donna su una sedia a rotelle che trovarono all’ingresso e percorsero il lungo corridoio.
“Come stai?” Le chiese.
La donna non rispondeva. Stava perdendo troppo sangue. A ricordarglielo era la scia che stavano lasciando lungo il corridoio.
Entrarono nella sala e fece sdraiare la donna sulla barella. Era allo stremo delle forze.
Cercava di tenere a mente quello che aveva capito dei tutorial. Prese delle bende elastiche e del disinfettante. Ma non sarebbe stato abbastanza. Doveva rimuovere quella scheggia che spuntava dalla ferita. Avrebbe dovuto sedarla.
Dall’altra parte della casa sua madre continuava a chiamarlo per il pranzo e aveva a disposizione poco tempo. Cercò di calmarsi e di analizzare quello che i tutorial dicevano.
Aveva sempre avuto paura del sangue. E stava pulendo una ferita di una donna che non conosceva. Toccò l’oggetto che fuoriusciva dalla pelle e si rese conto che non si trattava di una scheggia, ma di qualcos’altro. Pensò a un proiettile, ma era diverso, seppur la forma lo ricordasse.
Lo rimosse lentamente e tamponò la ferita, una volta fermata e disinfettata aveva bisogno di applicare dei punti. Pregò di non svenire.
La voce di sua madre era sempre più forte. Prese la corda anallergica e iniziò l’operazione.
La donna era ancora sedata. Sperava che il dosaggio dell’anestetico fosse sufficiente.
Poi la sentì urlare.
In quel momento la porta si aprì. Era riuscito a nascondere la schermata di Second Life.
Accanto a sua madre c’era una donna con un abito elegante ma sobrio. Aveva un mezzo sorriso forzato.
“Fabio, saluta la dottoressa. Dice che vuole sottoporti a dei controlli.”
“Fabio, vuoi vestirti e venire con me? Faremo tanti giochi. Ti va?”

#Ep4

C’erano monitor dappertutto. E Fabio sentiva il morso della fame. Fuori dal suo involucro, costruito a sua difesa, stava gridando. E non avrebbe voluto farlo, sapeva che quando succedeva sua madre aveva paura.

Paura che suo figlio non riuscisse a superare l’ennesima crisi. Fabio riusciva a sentire la presenza degli elettrodi posizionati in ogni punto del suo corpo. Sentiva flebile il suono della voce della dottoressa che sta mostrando a sua madre un piccolo oggetto. Alcuni flash che sua memoria gli consegnava gli raccontavano che era stato portato in quel luogo trascinato da cinque persone, che lo avevano legato alla barella. Sprazzi di vista mostravano il monitor sul quale si muoveva impazzito il grafico delle sue funzioni vitali. La dottoressa aveva definito quello che stava accadendo: “la soluzione”. Fabio iniziò a percepire dei rumori provenienti da fuori, aldilà della porta della sala operatoria. Anche se nella posizione in cui si trovava riusciva a vedere poco, notò il viso della dottoressa. Era teso. Contratto. Capì che la dottoressa era allarmata. Il monitor che fino a pochi istanti prima aveva mostrato i suoi parametri vitali era saltato ed emetteva fumo nero. Anche quello accanto era ormai fuori uso.

“Cosa sta accadendo?”, pensò.

Fuori dal suo involucro Fabio aveva smesso di gridare. Sentiva il cuore accelerare, mentre vedeva la dottoressa fissare mia madre, la quale rispose con un breve cenno del viso.

Vidi la dottoressa indossare una mascherina e avvicinarsi con il piccolo oggetto in mano.

Proprio quel momento anche il terzo monitor saltò per aria. Fabio perse i sensi nel momento stesso in cui sentí penetrare l’oggetto nella mia nuca. Non vide più niente, soltanto flash che lo abbagliavano. Ovunque lui fosse in quel momento. Non riusciva più a percepire il tempo. Né a muoversi.

Quando riaprì gli occhi era sdraiato su una barella, si guardò intorno e pensò di trovarsi all’interno di un furgone che correva a folle velocità. Il lenzuolo era sporco di sangue e sentiva delle forti fitte poco sopra la nuca.

Fabio cercò di mettere a fuoco ciò che aveva intorno. Doveva mantenere la calma. Evitare che tutte quelle sollecitazioni non si sovrapponessero e che tutte le informazioni fossero condotte nei giusti corridoi. In quelli che conosceva meglio, perché aveva imparato a capire che la sua mente era come un labirinto. Bastava che informazioni finissero nel corridoio sbagliato perché tutto si confondesse e la realtà prendesse forme diverse.

“Stai bene?” sentì pronunciare da un viso che vedeva appena.

Fabio rimase in silenzio, chiedendosi se fuori dal suo involucro stesse già gridando.

“Io so che ti chiami Fabio”, proseguì.

Fabio sentiva il frastuono provenire dall’esterno del furgone. Gli penumatici stridevano, rumori metallici, colpi che spingevano il furgone da dietro, come se qualcuno o qualcosa lo stesse spingendo in avanti. I dati che vedeva sul piccolo monitor a lato indicavano che i suoi parametri vitali stavano tornando alla normalità.

“Come ti chiami?” pensò di chiederle. Chissà se la voce sarebbe uscita questa volta, pensò.

Fabio non seppe mai se la sua voce fosse davvero uscita, ma la ragazza che aveva di fronte rispose.

“Simona. Io mi chiamo Simona. E un po’ ci somigliamo”.

“E chi sei?”, immaginò di chiederle.

“Sono una ricercatrice.”

Fabio iniziava a unire le immagini che la memoria gli inviava. Quella ragazza era piombata nel laboratorio e aveva addormentato la dottoressa e sua mamma, lo aveva slegato e portato via, poco prima che degli uomini armati sfondassero la porta. Lo aveva accompagnato attraverso un’uscita secondaria e poi fatti salire sul furgone sul quale ora si trovava.

“Torneremo a prendere la mamma, sta tranquillo”, aveva detto. Mentre gli uomini armati salivano su un altro furgone e si lanciavano all’inseguimento.

#Ep5

La sala era piena di monitor, ma Simona lo condusse davanti a un oggetto che sembrava una scatolina nera. “Qui c’è qualcosa che vorrei farti vedere.”

“Cos’è?”, pensò di chiederle.

“Un vecchio gioco, che tu conosci. Ma dentro questo gioco c’è nascosto qualcosa.

Qualcosa che noi dobbiamo trovare.”

“Perché?”

“Perché smettano di cercarci. E perché tutto possa tornare come prima.”

“Dove sono loro?”

“Li abbiamo seminati, per ora. Proprio come nei giochi. Ma torneranno. Presto ci troveranno, per questo non abbiamo molto tempo.

“Cos’è?”, disse, indicando la scatolina.

“Un vecchio disco esterno. È lì dentro che si trova il gioco”.

“Lo accendiamo?”, chiese. Ma in quel momento la sentì arrivare. Una di quelle informazioni aveva preso il corridoio sbagliato. Capì dall’espressione di Simona che fuori dell’involucro aveva iniziato a gridare e che aveva preso in mano la scatola per lanciarla contro il muro. Simona si sarebbe arrabbiata. E non sarebbe più riuscito a giocare al nuovo gioco.

Sentiva di volerle chiedere scusa, ma non riusciva a fermare il suo corpo che si muoveva, impazzito. L’aria iniziava a mandargli, non era mai andato al mare, ma immaginava proprio così la sensazione di affogare. Questa crisi era una delle peggiori, lo capiva. I diversi dottori che avevano provato a curarlo avevano sempre detto di restare tranquillo, ma non ci era mai riuscito. E ora tutto stava divendo oscuro. Scatenando il lui la paura più ancestrale. Quella del buio.

Guardo Simona, con gli ultimi scampoli di lucidità. Gli sembro di vederla correre verso il muro e tornare con qualcosa in mano, per inserirla in uno dei computer.

Qualche istante più tardi tutto tornò normale. Improvvisamente.

Si guardò intorno, stupito.

“Cosa è successo?”, provò a chiedere.

“Siamo nel gioco.”

Fabio non vedeva nulla di diverso.

“Non capisco”, disse.

Osservò il volto disteso di Simona. Sembrava divertita.

“Che gioco sarebbe? Cosa dovremmo fare?”

Poi si rese conto. Stava parlando e ne era consapevole. Sentì una forma di magone provenire da dentro, poi non riuscì a fermare le lacrime.

#Ep6

“Dobbiamo arrivare al nodo di trasmissione del segnale”

“Quale segnale?”

“Quello che inibisce parte del nostro cervello: l’amigdala”

Fabio rimase a fissare la ragazza.

“Esiste un sistema in grado di modificare il ragionamento del nostro cervello. Ma esistono alcune anomalie. E noi facciamo parte di queste.”

“Chi sono gli altri che ne sono influenzati?”.

“Tutti, Fabio. Anche se loro non se ne rendono conto. Noi, in qualche modo, ne subiamo un effetto ridotto”.

“Come hai fatto a rimuoverlo?”

“Con un vecchio modello numerico che riesce a schermare il segnale di contagio, sono riuscita a recuperarla da un vecchio laboratorio utilizzato per le ricerche a cui avevo partecipato quando tutto era ancora normale”.

“Non è permanente?”

“No, quando si accorgeranno che il modello è stato attivato proveranno in tutti i modi a eliminarlo.”

“Come pensi di arrivare al nodo?”

“Attraverso un gioco che conosci bene”.

“Second Life?”

“Esattamente. Te la senti?”

Fabio si sentiva finalmente sicuro di se stesso.

“Non vedo l’ora.

Finalmente Fabio si sentiva a casa.

Le luci, le immagini, le sagome poco definite dei fabbricati. I suoni metallici di un gioco in cui aveva trascorso buona parte della sua vita.

Si voltò e vide la sagoma della donna che ricordava di aver salvato pochi mesi prima. Ricordava di averla portata nell’ospedale di Second Life per fermare la sua emorragia. Ora sapeva che quello era l’avatar di Simona.

“Dobbiamo prendere un’auto” disse lei, mentre si accingeva a rompere il vetro di una vecchia familiare.

La vide chinarsi sotto il volante per poi metterla in moto.

“Come fai a saperlo?”

“Me lo ha insegnato un caro amico. Un giorno lo conoscerai”.

Salirono in auto e percorsero la strada sconnessa fino ai bordi della città.

“Lo vedi quell’impianto là in fondo?”

“Sì. É macchina del fumo.”

“No, è molto peggio.”

“Cosa dobbiamo fare?”

“Entrarci.”

“É impossibile. So che è pattugliata dagli uomini del controllo del gioco.”

“Proprio per questo motivo ho portato queste” replicò mentre tirava fuori dalla borsa due tute.

“Indossiamole” continuò.

Fabio la vide togliersi la maglia e i pantaloni e rimase incantato dal suo seno e dal suo corpo. Se quello non fosse stato un gioco avrebbe provato quella sensazione per la quale sua madre lo sgridava sempre. In rete aveva letto che si trattava di erezione.

Indossarono le tute. Fabio non riusciva a mettere da parte l’immagine di lei in reggiseno e slip. Abbassò lo sguardo, cercando di nascondere la vampata che lo stava per travolgere.

“Non farlo mai.”

“Io…non…”

“Abbassare lo sguardo, Fabio. Non farlo mai. Ricordatelo. Di fronte a nessuno.”

Lui sorrise. Lei gli sorrise di rimando.

Proseguirono in auto fino al limite della recinzione. Simona condusse l’auto fino al cancello principale. Era aperto. La scritta indicava il nome dell’azienda, con rappresentato il logo riprodotto anche sulle tute. Dhk.

Lo stabilimento industriale sembrava abbandonato.

“Vedi anche tu le immagini leggermente distorte?” chiese Fabio a Simona.

“Sì. Dobbiamo fare presto”.

“Perché?”

“Sono interferenze”.

Avanzarono lentamente lungo il corridoio illuminato da poche lampade di emergenza sparse.

“Sento dei rumori”, affermò Fabio.

“Anche io. Provengono dall’esterno. Abbiamo pochi secondi.”

Raggiunsero la sala dei comandi, posta al primi piano del fabbricato. Simona si bloccò davanti all’immagine visualizzata sul monitor.

Qualche istante più tardi la vide anche Fabio. Simona vide la sua testa iniziare a ciondolare violentemente da una parte all’altra.

“Fabio, resta con me. Non è vero. Cercano di destabilizzarti”.

“Mamma.”

Simona cercò invano di farlo ragionare.

Sentiva i rumori esterni e le interferenze aumentare. Ormai li avevano trovati. Entro qualche minuto li avrebbero prelevati. Fabio non sarebbe più riuscito a comunicare se loro avessero distrutto la scatola nera. E lo avrebbero fatto presto. Pensò, mentre osservava sul monitor la mamma di Fabio piangere.

All’improvviso, all’interno del gioco si aprì una porta lampeggiante.

“Andiamo.”

“Cosa, cosa…”

“È una porta secondaria della rete.”

“Non posso. Io. Ho.”, replicò Fabio, continuando a ondeggiare la testa e fissando il vuoto.

Simona spinse con forza Fabio a oltrepassare la porta. In quell’istante la porta svanì nel nulla.

Aprì gli occhi ed era fuori dal gioco. Di fronte a lei gli occhi di ghiaccio di Sergej. Accanto a lei Fabio, privo di conoscenza.

#Ep7

Simona aprì gli occhi lentamente. Le immagini che vedeva erano ancora offuscate.

“Dov’è Fabio?”

Nessuno le rispose.

Vide accendersi un grande monitor posizionato davanti a lei. Comparve il volto di un uomo.

“Non puoi essere tu.”

“Certo che posso. Non devi preoccuparti per il tuo giovane amico. Starà benissimo.”

“Non dovete fargli del male!” urlò Simona.

Ma il monitor si spense.

Nel laboratorio accanto uno scanner ottico e uno scanner celebrale cercava di carpire le informazioni del cervello di Fabio per crearne un fedele backup.

Fabio camminava da solo in una strada polverosa. Il gioco lo aveva sbalzato fuori dalla centrale di Dhk. Non vedeva nessun utente attivo. Nessun movimento all’interno del gioco. Ricordava poco di quello che era accaduto, solo che Simona lo aveva spinto all’interno del gioco, prima che degli uomini disattivassero l’oggetto nero che gli consentiva di ragionare nel modo corretto. Non era abituato a ragionare in modo così fluido, i suoi pensieri erano più veloci, anche se sentiva che c’era qualcosa che gli mancava. Per un attimo ebbe paura di rimanere prigioniero in quella schermata. E nella sua mente si materializzò un altro pensiero: il desiderio, la consapevolezza che per lui sarebbe stata la cosa migliore. Infondo in quel mondo lui non aveva alcun limite, poteva esprimersi, farsi capire come tutti gli altri. Nessuno lo additava o identificava come diverso. Quel pensiero svanì in fretta, allontanato da uno che lo terrorizzava. Cosa avrebbero fatto quegli uomini a Simona? Ripensò al suo corpo sinuoso, al suo modo di muoversi. Sentì salire quella sensazione che iniziava a riconoscere: l’eccitazione. Cercò di lasciar dissolvere il pensiero di quella donna e proseguì per la sua strada. In lontananza vide comparire un fabbricato, un cubo senza alcun particolare di rilievo, un classico elemento geometrico che era abituato a vedere nelle ambientazioni dei vecchio giochi per computer e in particolar modo nel portale che un tempo era stato il preludio ai social network: Second Life.

Cercò una via di accesso e nel lato in ombra notò una piccola porticina appena disegnato. Non vide nessuna maniglia, ma era abituato a quella precisione superficiale nella programmazione dei primi giochi virtuali. Conosceva bene la definizione grafica elevata dei giochi moderni, ma in qualche modo amava quello stile unico dei primi videogiochi. Si allontanò convinto che si trattasse soltanto di un elemento abbozzato nel gioco, ma qualcosa non lo convinceva fino in fondo.

Nessun programmatore del tempo avrebbe mai inserito quella porta in una zona così poco frequentata abitualmente dagli utenti senza dargli un senso e una funzione. Avvicinò il viso alla porta cercando di individuare qualche caratteristica in più. In quell’istante sentì un rumore leggero provenire da oltre la porta e vide accendersi delle luci puntate sui suoi occhi. Di istinto li chiuse, ma un attimo prima che lo scanner ottico si attivasse e rilevasse il segnale che gli era utile perché la porta si aprisse di scatto. Fece qualche passo all’interno dell’edificio verso quella che sembrava una reception. Una scritta sulla parte bassa del bancone recitava: tempio dell’anima. Una voce metallica registrata gli chiese le credenziali. Ci pensò qualche istante e le recitò. Una linea luminosa gli indicò la strada da seguire, lui la seguì e lo condusse in una sala allestita con banchi simili a quelli di una chiesa con tanto di inginocchiatoi in velluto. Di fronte a lui vide un altare senza fiori, né decorazioni. Le luci sulle pareti riproducevano l’effetto dei rosoni di una chiesa gotica che ricordava di aver visto da qualche parte. Seduto sul primo banco vide un uomo. Fabio avanzò lentamente. L’uomo seduto era vestito di nero, l’età che riuscì a percepire era intorno ai quarantacinque anni.

“Ciao. Come ti chiami?” chiese Fabio.

L’uomo ricambiò il suo sguardo, poi lo riabbassò fissando l’inginocchiatoio.

“Ho bisogno di aiuto. Devo salvare una persona a cui voglio bene. Si chiama Simona. É una ricercatrice.”

Vide l’uomo rialzare lo sguardo e fissarlo, ma non rispose.

“Perché sei qui, in questo gioco?”

“Quale gioco?” rispose l’uomo.

“Second Life.”

“Ricordo solo di aver perso conoscenza e di essermi risvegliato in questa realtà.”

“Dov’eri quando è successo?”

“Chartres. Cattedrale di Chartres”

“Ecco dove avevo visto questi rosoni, sul libro di scuola”, disse Fabio.

“Comunque io chiamo Davide.”

Parigi

Ospedale

L’infermiere entrò nella stanza per controllare il paziente che un anno prima era stato portato in condizioni critiche e che da allora era rimasto in coma. Pochi minuti prima aveva sentito il primario dell’ospedale parlare con un noto esperto di neurologia. Il concetto che era stato chiaro, entro pochi giorni avrebbero valutato l’ipotesi di staccare la spina. Nessun parente lo aveva cercato e il quadro clinico era stabile da troppo tempo. L’uomo si chiamava Davide Porta.

Nelle puntate precedenti:

Fabio, un ragazzino che soffre di una patologia dello sprettro autistico, ha incontrato Davide Porta attraverso il portale Second Life, luogo virtuale in cui non risente degli effetti della patologia di cui soffre. Simona, che era riuscita a far entrare Fabio nel portale per salvarlo dalle mani di Sergej e dei suoi uomini, finisce per essere torturata per ottenere informazioni. Ma lei non parla, continua a osservare Fabio, privo di conoscenza, che sembra in preda a un sogno molto intenso.

#Ep8

Le fronde degli alberi e i rami gli battevano sul viso mentre correva. Riusciva a percepire i bagliori dei fari anche al di sopra del bosco. Correva, come se da un momento all’altro potesse venirgli in mente un’idea. Un piano. Un luogo dove andare. Fabio conosceva poco la sua mente. I suoi medici gli avevano diagnosticato una sindrome dello spettro autistico. Non era mai stato bravo a manifestare le sue emozioni, eppure era dispiaciuto per quelle espressioni che comparivano sul viso della sua mamma. Sapeva che lei era preoccupata per cosa sarebbe stato di Fabio nel futuro. Con il tempo lo aveva visto integrarsi, a modo, suo con il mondo che lo circondava e acquisire di volta in volta nuove capacità. Quella che più la stupiva era la memoria. Era in grado di ricordare intere mappe e percorsi senza il minimo sforzo. E per Fabio questa era sempre stata una forma di soddisfazione. Il cuore gli batteva fin quasi a scoppiare, in quella situazione temeva che sarebbe esplosa la crisi. E se fosse accaduto lo avrebbero sicuramente trovato. Non doveva accadere. Non in quel momento. Cercò di mantenere la calma e si fermò sotto un albero dalle fronde più intense. Riprese fiato e iniziò a pensare. Ci vollero pochi istanti perché alla sua mente riaffiorò un ricordo. Era una mappa del bosco che aveva consultato qualche mese prima per un lavoro che gli avevano richiesto a scuola. Si stupì di ricordare ogni più piccolo e insignificante particolare. Compreso il punto più nascosto e pericoloso, ma nel quale i suoi inseguitori non sarebbero mai arrivati. Da quelle parti tutti gli abitanti della zona lo chiamano l’inferno. E ironia della sorte, quella rappresentava l’unica possibilità di salvarsi.

Simona era legata a una sedia. Sul suo corpo avevano sperimentato già diversi strumenti di tortura, dalle percosse, alle bruciature, fino all’annegamento. Si sentiva esausta e sul punto di cedere. Volevano sapere dove trovare il ragazzino, ma lei non lo avrebbe mai detto. Voleva consentirgli un margine di vantaggio. Sergej la fissava con sguardo perfido. Sapeva che l’avrebbe prima o poi uccisa se non fosse riuscito a recuperare Fabio. E forse l’avrebbe uccisa lo stesso. Fabio era stato furbo e scaltro. Quando aveva riaperto gli occhi sembrava posseduto da una luce nuova. In un attimo aveva capito che non poteva contare su di lei. Era riuscito a eludere la sorveglianza, nessuno di loro poteva anticipare le mosse di un ragazzino veloce e determinato che in poche mosse era riuscito a uscire all’esterno. Gli aguzzini erano convinti di prenderlo in pochi minuti, li aveva sentiti ridere di lui. Ma erano passate ore e non erano ancora tornati. E Sergej era sempre più nervoso.

Qualche istante più tardi Sergej perse la pazienza. Gli avevano comunicato che il segnale di posizionamento del ragazzo era svanito nel nulla. Simona non riuscì a nascondere un sorriso, sapendo che l’avrebbero colpita sul volto. Non le importava.

Clinica sperimentale 02

Il primario stava visionando gli ultimi risultati dei test eseguiti sul paziente ed erano negativi. Chiamò il responsabile del reparto e comunicò una data. La data in cui i macchinari sarebbero stati spenti. Tre giorni. Non avrebbe concesso più di tre giorni.

Nelle puntate precedenti

Fabio è fuggito nel bosco, inseguito dalle guardie che avevano rapito anche Simona. Lo avevano sottovalutato perché soffriva di una patologia dello spettro autistico, ma lui ricordava perfettamente la mappa di quel bosco. Gli inseguitori non hanno tempo e decidono si dare fuoco al bosco.
Il nuovo capo del regime è pronto a decretare concluso il progetto di controllo totale.
In una clinica, il primario sta per dare il via allo spegnimento dei macchinari che tengono in vita un paziente. Quel paziente è Davide Porta. Un uomo che possiede l’unica soluzione per fermare il virus.

#Ep9

“Nel mezzo del cammino, mi ritrovai per una selva oscura. Che la diritta via, era smarrita”.

Ed era proprio quello il concetto che affioró nella mente di Fabio. L’inferno, così veniva chiamato dai ragazzini quel bosco, così fitto e inquietante.

Ma Fabio non aveva tempo per aver paura. Continuava a rimandare indietro il preludio di una crisi. La sua mente era sollecitata da troppo tempo. Il dottore lo aveva ripetuto più volte che nella sua condizione non si sarebbe dovuto esporre a situazioni simili. Ma quel bosco rappresentava il posto più sicuro in cui fermarsi per riposarsi e capire cosa fare. Ricordava bene la mappa di quel bosco, l’aveva vista su un libro.
Ci volle poco tempo per raggiungere il corso d’acqua che lo attraversava. Aveva sete. Si sentiva stranamente lucido. Si chiedeva fin dove si sarebbero spinti per stanarlo. Ma perché cercavano proprio lui? Un ragazzino autistico, insicuro e silenzioso. Non lo sapeva.
Iniziò a piovere e a tirare vento. Per lo meno in quella situazione non avrebbero mandato in giro droni per la ricerca termica. Questo gli concedeva un po’ di tempo.
Cercò di riprendere il controllo della sua mente, ma non era semplice. Sentiva che stava per perdere il controllo. La sua mente era un sistema delicato e in precario equilibrio. Sapeva che avrebbe iniziato a gridare a colpire oggetti con violenza e non ci sarebbe stato nessuno a placarne gli effetti. E in più avrebbe sicuramente attirato l’attenzione. Si fermò accanto al corso d’acqua che si stava man mano riempiendo grazie alla pioggia che continuava a scendere copiosa. Gli tornò in mente la mappa del bosco. Una leggenda raccontava che quel bosco era stato il rifugio segreto di una nobildonna del medioevo. Sentiva la crisi arrivare. E c’era qualcosa che la sua mente stava captando. Odore di Cherosene. Un liquido infiammabile. Non sapeva che la sua fosse solo una fantasia deviata, ma iniziò a credere che fossero pronti a dare fuoco al bosco. A dargli la certezza furono gli animali correre impazziti. Doveva ricordare in fretta alla mappe e a un luogo sicuro in cui nascondersi.

Sala operativa Lmds

A che punto siamo con la rimozione dei soggetti che non rispondono alla cura?
A buon punto. Mancano soltanto pochi elementi.
Benissimo, come procedere il monitoraggio dello sviluppo del virus?
Siamo al 90%. Superata la soglia del 95% il processo potrà considerarsi irreversibile.

L’imperatore sorrise. Nessun ostacolo lo avrebbe fermato nella corsa del primo Impero della nuova era. Quella tecnologica. Era in cui il cervello può essere riconfigurato come una qualsiasi periferica. A lui era bastato il segnale della Macchina del Silenzio. Un segnale in grado di modificare il funzionamento dell’amigdala. La parte del cervello che processa le informazioni in ingresso al cervello. E il tutto grazie a un modello numerico che gestiva il flusso di frequenze da diffondere. Idro3. La sua era una macchina perfetta.

Clinica 02.
“Preparate il protocollo di sedazione del soggetto della stanza 13”, ordinò il primario.
“Come vuole”, rispose il medico.

Nella stanza 13 c’era il corpo di un uomo di cui non si conosceva l’identità. Nessun parente aveva denunciato la scomparsa. L’unica particolarità rilevata dallo scanner celebrale era una leggera anomalia.

Intanto, nel bosco, le fiamme si erano alzate in cielo nonostante la pioggia. Il bosco sembrava un’immensa cattedrale di fuoco. Dall’unico lato non attaccato dalle fiamme uscivano animali spaventati. I soldati aspettavo con pazienza che sbucasse il ragazzino.

Ma Fabio stava per morire soffocato e le ferite che si era procurato con l’ultima crisi gli rendevano difficile ritrovare la lucidità. Vide un masso e in quell’istante immaginó la nobildonna che per raggiungere in sicurezza quel luogo utilizzava un antico tunnel. Si mosse a tentoni verso il lato nascosto del masso e intravede un varco. Forse quella leggenda non era solo frutto di fantasia. Così Fabio si immerse nel buio.

#Ep10

Fabio sentiva la mancanza dell’aria. Ma non era l’unica cosa che riusciva a percepire. Sentiva l’avvicinarsi della paura, il fattore scatenante di un’altra crisi. Ogni passo lo immergeva sempre di più nel buio. Il tunnel sembrava non finire mai. All’inizio Fabio aveva creduto fosse la soluzione migliore e probabilmente era così, perché in quel momento sicuramente il bosco in cui si era nascosto era stato dato alle fiamme e quel tunnel rappresentava la sua unica salvezza. Cercava di non voltarsi, di mantenere uno stato di calma, anche se sentiva un rumore sordo provenire dal luogo da cui era scappato. Sembrava il suono di un fiume in piena. Che si avvicinava velocemente. Ma non aveva tempo per riflettere, la sindrome dello spettro autistico di cui soffriva era come una bomba a orologeria per lui in quella situazione di stress. Il rumore sordo aumentava istante dopo istante, fino ad assomigliare sempre di un più a un rombo assordante. Iniziò a correre, ma sapeva di essere troppo lento, perché doveva orientarsi nel buio a tentoni. Il rombo era fortissimo, di qualsiasi cosa si trattasse lo stava per raggiungere. All’improvviso colpì qualcosa che non gli permise di proseguire la corsa. Il tunnel terminava con un muro. Dall’alto vide il riflesso di una luce, che illuminò una scaletta arrugginita. La vide un attimo prima che un fiume in piena raggiungesse il punto in cui si trovava. Dall’altra parte del tunnel i suoi inseguitori aveva deviato corso d’acqua che attraversava il bosco.

Davide stava per svegliarsi. Il primario aveva dato istruzione sul blocco dei macchinari che lo tenevano in vita.

L’impero aveva completato l’operazione di ricondizionamento degli equilibri politici dei principali stati con elezioni pilotate e aveva dato mandato di arrestare tutti i soggetti che risultavano immuni all’influenza della Macchina del Silenzio.

Simona era stata arrestata e con lei gli scagnozzi che l’avevano rapita.

Anche Monica era stata arrestata mentre stava cercando di scappare all’estero.

Il mandato di arresto venne diramato anche anche per Davide, ma era stato sospeso poiché la sua condanna era già stata emessa. Sarebbe morto a breve.

Fabio riapri gli occhi lentamente, cercò di muovere le articolazioni, che continuavano a fargli male. Si guardò intorno, era solo. Si ricordò in quell’istante di essere riuscito ad allontanarsi dal tunnel pochi istanti prima che l’ondata di piena lo strascinasse via.

Cercò nella sua memoria quale fosse il passo successivo da fare. La sua memoria era fenomenale come magazzino di informazioni, da qualche parte era sicuro di poter ritrovare l’immagine la mappa della città. Si ricordò perfettamente la strada per raggiungere l’ospedale in cui si trovava Davide. Era lo stesso che aveva visto nel gioco Second Life.

Si avvicinò il più possibile all’ospedale. Nessuno aveva dato troppa importanza alla sua presenza, nemmeno quelle che sembravano essere delle guardie.

Si soffermò a guardare le planimetrie del piano di emergenza del fabbricato che erano appese a uno dei muri. Attese che attorno a lui ci fosse un momento in cui il personale fosse ridotto al minimo nell’area della reception dell’ospedale e riuscì a sgattaiolare dall’altra parte del bancone e ad accedere a uno dei computer. Un’impiegata era impegnata in quel momento a dare indicazioni al parente di un paziente. Aveva solo pochissimi secondi per interrogare il database dei ricoverati nella struttura. Soltanto per una stanza non era indicato il nome del degente. Era un’informazione più che sufficiente.

Si avviò verso le scale e salì al terzo piano. Vide alcune guardie stazionare nel corridoio.

Sentì alcuni dottori parlare. Capì che stavano pianificando lo spegnimento dei macchinari di un degente. Il sangue gli si gelò nelle vene.

Si avvicinò alla stanza in cui immaginò di potesse trovare Davide e aprì la porta lentamente.

Non si era sbagliato, vide un uomo con il volto pallido, magro, che attendeva il proprio momento sul letto anonimo dell’ospedale, privo di conoscenza.

Sentì dei rumori provenienti dall’esterno della stanza, immaginò che mancasse poco all’inizio della procedura di spegnimento dei macchinari. Si nascose dietro un armadio nel momento in cui sentì aprirsi la porta. Sentì le voci degli infermieri che sistemavano le flebo e che ragionavano sulle ultime valutazioni del caso.

Fabio sentì crescere la voglia di piangere. Avrebbe voluto riuscire a parlare, chiedere di fermarsi, urlare, semmai, chiedere aiuto. Ma non riusciva a fare niente di tutto questo. Dentro di lui sapeva che lo avrebbe portato via e non poteva permetterlo. Gli tornò in mente uno dei discorsi che la sua mamma gli aveva fatto, ricordava le sue raccomandazioni, i suoi discorsi sul futuro, su quanto sarebbe stato bello. La sua promessa che avrebbero sempre parlato, per ore e ore, di tutto. Ma lui a parlare non ci era mai riuscito e non riusciva a dimenticare le espressioni della sua mamma, quella delusione che emergeva, latente, quando c’erano attorno altre famiglie, altre mamme che parlavano e ridevano con i propri figli. Quell’espressione di chi sapeva che a lei non sarebbe mai successo. Ricordava tutte le volte che l’aveva sentita piangere, da sola.

Avrebbe voluto piangere anche lui in quel momento. Ma si trattenne e riuscì a non farlo.

Rimase in attesa. Si accorse che gli infermieri erano usciti momentaneamente dalla stanza. Si avvicinò al letto di Davide e iniziò a scuotergli il braccio. Non vide nessuna reazione. L’uomo sembrava lontano. Sapeva che nel gioco era riuscito a parlarci e in quel momento gli era sembrato vigile.

Avrebbe voluto essere in grado di parlargli, ma era prigioniero della malattia che gli avevano diagnosticato. Stava per andar via, mesto, quando la sua mano sfiorò quella di Davide e sentì un timido movimento di quel corpo.

#Ep11

Davide aprì lentamente gli occhi.

Fabio tornò sui suoi passi e si riavvicinò al letto. I due si guardarono.

Fabio provò, con i gesti, a fargli capire che erano in pericolo e che dovevano scappare subito. Davide gli sembrò frastornato e confuso.

Fuori dalla stanza i rumori aumentano di intensità.

Fabio attese che i rumori si placassero e aprì la porta per riuscire a intravedere la situazione nel corridoio. In quel momento non c’è nessuno. Fece cenno a Davide di alzarsi, aiutandolo perché riuscisse a restare in piedi.

Il tempo sembrava scorrere lentissimo. Una volta usciti dalla stanza, Davide riusciva a muoversi molto lentamente. Fabio sapeva che da un momento all’altro sarebbe potuto comparire qualcuno e allora tutto sarebbe stato finito. Sentì il vociare di dottori che proveniva da un corridoio laterale.

Si guardò intorno, inquieto. Cercò conforto nello sguardo di Davide, ma sembrava ancora troppo lontano per essergli d’aiuto. Gli tornò in mente la planimetria del Piano di Emergenza dell’ospedale e scelse di dirigersi verso la porta con il maniglione antipanico. Scesero lentamente al secondo piano, ricordava che la planimetria indicava un corridoio che partiva proprio da quel punto e che conduceva all’ala opposta dell’ospedale. Lui e Davide si trascinano passo dopo passo, verso quel corridoio.

Nel frattempo sentirono il suono dell’allarme.

Si erano accorti che Davide non era più al suo posto.

Mentre i due si muovevano lungo il corridoio, Fabio si accorse che Davide stava riprendendo le forze. Raggiunsero il Pronto Soccorso, mischiandosi ai numerosi pazienti che attendevano di essere visitati. Nel momento di uscire all’esterno Fabio rimase bloccato, non riusciva a muoversi. Sentiva crescere dentro lui il momento di crisi. Davide cercò di smuoverlo, mentre osservava un’ambulanza ferma nel piazzale antistante l’accesso al Pronto Soccorso, ma tutto sembrava inutile. Davide guardò Fabio negli occhi e capì che era in corso una crisi di panico. Stringeva in una mano un oggetto che era riuscito a prelevare da una delle scrivanie dell’ospedale, mentre Fabio apriva una delle porte.

Davide si avvicinò all’ambulanza, in quel momento i pazienti in attesa per Pronto Soccorso e si stavano radunando attorno a un infermiere per capire quando sarebbe arrivato il loro turno. L’infermiere stava informando che erano in corso le procedure di sicurezza e che dovevano attendere.

Davide prese il cacciavite che aveva in tasca e si portò nella parte nascosta del veicolo, poi fece un cenno a Fabio, che, come un automa, lo seguì e salì a bordo del mezzo.

Dopo pochi istanti si ritrovarono lontano dall’ospedale.

#Ep 12

Fabio gesticolava animatamente.

Davide strinse gli occhi, cercando di cacciare indietro il forte mal di testa, ma provando a capire cosa Fabio volesse dirgli.

Indicava il segnale del Gps. Si avvicinò al monitor e guardò una serie di codici che il ragazzino aveva digitato . Fissò gli occhi del ragazzo, senza aver capito. Gli disse di andare avanti, soltanto perché si fidava di lui.

Davide vide il ragazzino digitare una serie impressionante di codici, dopo qualche secondo il segnale del Gps sparì e comparì la scritta “Signal Lost”. Sul viso di Fabio comparve un timido sorriso.

Davide si sentiva ancora confuso, sentiva che Fabio, in qualche modo, riuscisse a percepire il suo stato, ma che, nonostante tutto, continuava ad aiutarlo.

Chi era quel ragazzo?

Davide deviò la traiettoria e uscì dalla strada principale, in direzione di una stradina sterrata. Guardò con la coda degli occhio Fabio, che sicuramente si stava chiedendo se sapesse dove andare. Sì, forse lo sapeva.

Nell’abitacolo regnava il silenzio, quando Davide decise di fermarsi. Si voltò verso Davide.

“Grazie”, gli sussurrò. La sua voce sembrava provenire da molto lontano.

“Davvero, ti ringrazio per quello che hai fatto. In questo momento ci staranno già cercando. Vai via. Mettiti in salvo”.

Fabio iniziò a scuotere violentemente la testa.

“È pericoloso”, aggiunse.

Fabio continuò a scuotere la testa.

Sentirono dei rumori provenire dall’alto. Forse elicotteri. Probabilmente droni.

La ricerca era iniziata prima del previsto.

Davide nascose l’ambulanza in un vecchio capannone abbandonato e fece segno a Fabio di seguirlo. Poi si avviarono nel bosco.

I rumori non si placavano, nemmeno i fari che scandagliavano la zona.

Davide sapeva che non sarebbero potuti andare molto lontano senza un piano e senza un altro mezzo di trasporto.

Sede dell’Impero

Nel frattempo dalla sede centrale dell’impero era stato inoltrato un comunicato, un mandato di cattura per una serie di persone che facevano parte della lista. L’elenco del soggetti che in qualche modo erano risultati negativi all’effetto del sistema di controllo.

Il piano dell’impero era in fase di conclusione. Il sistema era in grado di influenzare la maggioranza della popolazione, i governi della maggior parte degli Stati erano in fase di riconversione, grazie all’individuazione di governi di comodo.

Le scelte potevano essere prese influenzando i principali paesi della terra e per quelli ancora in guerra o in cui non era stato possibile installare antenne così efficaci per aumentare la copertura del segnale del sistema di controllo, erano stati inviati piccoli eserciti con il compito di ricondurre le situazioni sotto controllo. Una volta occupato il paese venivano creati i centri di trasmissione con le antenne. Man mano la copertura aumentava fino a raggiungere luoghi sempre più distanti.

Rimaneva soltanto una criticità da gestire. I soggetti che non reagivano nel modo sperato adeguato al segnale inviato dal sistema. C’era un solo modo per evitare che questi soggetti non nuocessero al piano: rimuoverli dalla circolazione.

A molti chilometri di distanza un camion strava trasportando dei rifiuti speciali da smaltire, uno di questi era una vecchia stampante da ufficio, l’unica forma di alimentazione rimasta era una piccola batteria ormai allo stremo delle sue risorse. Soltanto un piccolo segnale continuava a lampeggiare.

La bolla di accompagnamento indicava la destinazione finale: l’inceneritore.

Ph: Unsplash

#Labirinto – Ep12

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio
Nelle puntate precedenti:
Labirinto – #Ep1 – #Ep10
#Labirinto – #Ep11
  Episodio 12 Fabio gesticolava animatamente. Davide strinse gli occhi, cercando di cacciare indietro il forte mal di testa, ma provando a capire cosa Fabio volesse dirgli. Indicava il segnale del Gps. Si avvicinò al monitor e guardò una serie di codici che il ragazzino aveva digitato . Fissò gli occhi del ragazzo, senza aver capito. Gli disse di andare avanti, soltanto perché si fidava di lui. Davide vide il ragazzino digitare una serie impressionante di codici, dopo qualche secondo il segnale del Gps sparì e comparì la scritta “Signal Lost”. Sul viso di Fabio comparve un timido sorriso. Davide si sentiva ancora confuso, sentiva che Fabio, in qualche modo, riuscisse a percepire il suo stato, ma che, nonostante tutto, continuava ad aiutarlo. Chi era quel ragazzo? Davide deviò la traiettoria e uscì dalla strada principale, in direzione di una stradina sterrata. Guardò con la coda degli occhio Fabio, che sicuramente si stava chiedendo se sapesse dove andare. Sì, forse lo sapeva. Nell’abitacolo regnava il silenzio, quando Davide decise di fermarsi. Si voltò verso Davide. “Grazie”, gli sussurrò. La sua voce sembrava provenire da molto lontano. “Davvero, ti ringrazio per quello che hai fatto. In questo momento ci staranno già cercando. Vai via. Mettiti in salvo”. Fabio iniziò a scuotere violentemente la testa. “È pericoloso”, aggiunse. Fabio continuò a scuotere la testa. Sentirono dei rumori provenire dall’alto. Forse elicotteri. Probabilmente droni. La ricerca era iniziata prima del previsto. Davide nascose l’ambulanza in un vecchio capannone abbandonato e fece segno a Fabio di seguirlo. Poi si avviarono nel bosco. I rumori non si placavano, nemmeno i fari che scandagliavano la zona. Davide sapeva che non sarebbero potuti andare molto lontano senza un piano e senza un altro mezzo di trasporto. Sede dell’Impero Nel frattempo dalla sede centrale dell’impero era stato inoltrato un comunicato, un mandato di cattura per una serie di persone che facevano parte della lista. L’elenco del soggetti che in qualche modo erano risultati negativi all’effetto del sistema di controllo. Il piano dell’impero era in fase di conclusione. Il sistema era in grado di influenzare la maggioranza della popolazione, i governi della maggior parte degli Stati erano in fase di riconversione, grazie all’individuazione di governi di comodo. Le scelte potevano essere prese influenzando i principali paesi della terra e per quelli ancora in guerra o in cui non era stato possibile installare antenne così efficaci per aumentare la copertura del segnale del sistema di controllo, erano stati inviati piccoli eserciti con il compito di ricondurre le situazioni sotto controllo. Una volta occupato il paese venivano creati i centri di trasmissione con le antenne. Man mano la copertura aumentava fino a raggiungere luoghi sempre più distanti. Rimaneva soltanto una criticità da gestire. I soggetti che non reagivano nel modo sperato adeguato al segnale inviato dal sistema. C’era un solo modo per evitare che questi soggetti non nuocessero al piano: rimuoverli dalla circolazione. A molti chilometri di distanza un camion strava trasportando dei rifiuti speciali da smaltire, uno di questi era una vecchia stampante da ufficio, l’unica forma di alimentazione rimasta era una piccola batteria ormai allo stremo delle sue risorse. Soltanto un piccolo segnale continuava a lampeggiare. La bolla di accompagnamento indicava la destinazione finale: l’inceneritore. Photo: Unsplash

#Labirinto – #Ep11

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio, Narrativa

Negli episodi precedenti:

Labirinto – #Ep1 – #Ep10

#Ep11

Davide aprì lentamente gli occhi.

Fabio tornò sui suoi passi e si riavvicinò al letto. I due si guardarono.

Fabio provò, con i gesti, a fargli capire che erano in pericolo e che dovevano scappare subito. Davide gli sembrò frastornato e confuso.

Fuori dalla stanza i rumori aumentano di intensità.

Fabio attese che i rumori si placassero e aprì la porta per riuscire a intravedere la situazione nel corridoio. In quel momento non c’è nessuno. Fece cenno a Davide di alzarsi, aiutandolo perché riuscisse a restare in piedi.

Il tempo sembrava scorrere lentissimo. Una volta usciti dalla stanza, Davide riusciva a muoversi molto lentamente. Fabio sapeva che da un momento all’altro sarebbe potuto comparire qualcuno e allora tutto sarebbe stato finito. Sentì il vociare di dottori che proveniva da un corridoio laterale.

Si guardò intorno, inquieto. Cercò conforto nello sguardo di Davide, ma sembrava ancora troppo lontano per essergli d’aiuto. Gli tornò in mente la planimetria del Piano di Emergenza dell’ospedale e scelse di dirigersi verso la porta con il maniglione antipanico. Scesero lentamente al secondo piano, ricordava che la planimetria indicava un corridoio che partiva proprio da quel punto e che conduceva all’ala opposta dell’ospedale. Lui e Davide si trascinano passo dopo passo, verso quel corridoio.

Nel frattempo sentirono il suono dell’allarme. 

Si erano accorti che Davide non era più al suo posto. 

Mentre i due si muovevano lungo il corridoio, Fabio si accorse che Davide stava riprendendo le forze. Raggiunsero il Pronto Soccorso, mischiandosi ai numerosi pazienti che attendevano di essere visitati. Nel momento di uscire all’esterno Fabio rimase bloccato, non riusciva a muoversi. Sentiva crescere dentro lui il momento di crisi. Davide cercò di smuoverlo, mentre osservava un’ambulanza ferma nel piazzale antistante l’accesso al Pronto Soccorso, ma tutto sembrava inutile. Davide guardò Fabio negli occhi e capì che era in corso una crisi di panico. Stringeva in una mano un oggetto che era riuscito a prelevare da una delle scrivanie dell’ospedale, mentre Fabio apriva una delle porte. 

Davide si avvicinò all’ambulanza, in quel momento i pazienti in attesa per Pronto Soccorso e si stavano radunando attorno a un infermiere per capire quando sarebbe arrivato il loro turno. L’infermiere stava informando che erano in corso le procedure di sicurezza e che dovevano attendere. 

Davide prese il cacciavite che aveva in tasca e si portò nella parte nascosta del veicolo, poi fece un cenno a Fabio, che, come un automa, lo seguì e salì a bordo del mezzo. 

Dopo pochi istanti si ritrovarono lontano dall’ospedale.

#Labirinto

#Ep11

Fiction o revisione storica?

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Nel mio primo romanzo, #lequazione, raccontavo di un attacco al sistema, da parte di un gruppo di personaggi influenti economicamente, Dhk,  il cui fine era sovvertire l’equilibrio politico ed economico del cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale”.

La storia continuava nel secondo romanzo, #LaMacchinadelSilenzio, in cui, viene creata una macchina in grado di anticipare il pensiero degli esseri umani un attimo primo di essere processato dal cervello. La reazione veniva bloccata al livello dell’Amigdala. Questo avrebbe portato a cancellare il libero arbitrio. E sarebbe accaduto con un sistema assimilabile a un virus.

La tesi era chiaramente complottistica, né più, né meno di tanti altri thriller presenti sul mercato, scritti anche da penne più importanti della mia. Tuttavia quello che è accaduto negli ultimi anni ha decisamente superato quello che sarebbe accaduto nel terzo romanzo (non pubblicato da C.E. , ma in corso di pubblicazione sul web con lo pseudonimo di #labirinto).

Da allora abbiamo visto lo sviluppo del gruppo denominato Isis, o Daesh, il terrore, mediatico, crudele, “in diretta”.

Abbiamo “assistito” al presunto annientamento di questo gruppo.

Abbiamo visto andare al potere di uno degli stati più influenti del mondo uno strano personaggio politico. Abbiamo visto gli equilibri politici sociali e politici cambiare. Parliamo degli Stati Uniti.

Abbiamo visto un conflitto commerciale per lo sviluppo di tecnologia avanzata proveniente dal mondo asiatico, tecnologia non vista di buon occhio per il rischio di furto e controllo di informazioni.

Abbiamo visto da vicino il rischio di una guerra. Penso alla Corea del Nord.

I più grandi sanno che questo era già accaduto durante la Guerra Fredda.

Infatti, cambiano gli equilibri tra i paesi più influenti, comprese le nuove economie. Usa, Russia, Cina, Medioriente, una parte, almeno. E di tutti quei paesi che gravitano attorno a loro.

Ma la situazione si calma.

Poi, in una zona remota della Cina compare un virus. Qualcosa si simile a un’influenza, ma ad alto potere virale, che provoca gravi complicazioni a livello polmonare.

Fonti più o meno attendibili racconteranno che un laboratorio poco lontano erano stati svolte sperimentazioni proprio su quel tipo di virus. Le notizie ufficiali parlano, però, di virus mutato da animale, pipistrello, a uomo.

Quello che accade è lo sviluppo di quel virus in tutto il mondo fino a diventare una Pandemia, che provoca il collasso delle strutture sanitarie di tutti i paesi, a causa delle complicazioni del virus. E provoca morti, tanti morti. Perché la cura non esiste. La gente viene costretta a rimanere chiusa in casa. A non avere rapporti con altre persone per evitare il contagio.

Abbiamo visto lo sviluppo resosi necessario della tecnologia fondamentale per comunicare a distanza e una nuova e fondamentale elezione proprio negli Stati Uniti, il cui esito è ancora oggetto di battaglie legali.

Ma che sembra condurre al ripristino della situazione politica originaria.

Abbiamo visto la produzione da parte di più soggetti di un vaccino per fermare la Pandemia e l’insorgere di una grande parte dell’opinione pubblica contraria a farsi somministrare il vaccino.

Per tornare a ciò che avrei scritto in un terzo romanzo, avrei usato l’analogia con quanto accaduto durante il terzo Reich. La situazione ipotizzata nel secondo romanzo portava a una rete di controllo da parte di un soggetto ombra, un regime, che, grazie alla tecnologia sviluppata, permetteva di gestire intere popolazioni.

Ma il sistema avrebbe aveto un’anomalia. Non tutti sarebbero stati controllabili dal sistema. Alcuni soggetti sarebbero stati inseriti in liste di soppressione per eliminare completamente ogni forma di opposizione.

Nel terzo Reich la gran parte della popolazione non era nemmeno a conoscenza della “soluzione finale”, ma viveva in un mondo apparentemente “perfetto”, costruito dalla propaganda di regime. In quel caso la guerra portó il Regime alla sconfitta. Da quel momento in poi la storia intera subì diverse rivisitazioni, alcune delle quali raccontavano un mondo privo di Campi di concentramento, così come altre hanno taciuto l’esistenza dei Gulag russi, il cui scopo era esattamente lo stesso.

Tutta questa divagazione per dire che la storia è relativa. La scrive chi vince.

Ma quello che vi ho raccontato è un parallelismo tra una storia di fiction, scritta da me e la cronaca, ovvero un’altra storia che per quanto ne so potrebbe essere in buona parte un’altra fiction.

In tutto questo ci siamo noi. Quello che sappiamo, quello che non sapremo mai.
C’è che in questa scacchiera noi siamo quelli che hanno perso un anno della propria vita.
C’è che il nostro pensiero sembra contare nulla, che sia una tesi di giustizia, di complotto, di reazione, di assoggettamento, di rispetto delle regole, di comprensione di uno stato di emergenza dovuto alla Pandemia.
Il mondo è governato
da gruppi di potere, legate alla politica, alle correnti, agli equilibri economici e sociali. Nella storia del mondo è sempre stato così. La propaganda ha da sempre utilizzato le risorse disponibili in quel momento. Non è una novità, così come non lo è chi si improvvisa revisore della storia, anche loro fanno parte della narrazione voluta. Anche quelli come me che scrivono storie che vogliono essere alternative, anche quando probabilmente raccontano una buona parte di una realtà, a cui nessuno crederebbe mai. Nemmeno a posteriori.

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#Labirinto – #Ep10

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Fabio sentiva la mancanza dell’aria. Ma non era l’unica cosa che riusciva a percepire. Sentiva l’avvicinarsi della paura, il fattore scatenante di un’altra crisi. Ogni passo lo immergeva sempre di più nel buio. Il tunnel sembrava non finire mai. All’inizio Fabio aveva creduto fosse la soluzione migliore e probabilmente era così, perché in quel momento sicuramente il bosco in cui si era nascosto era stato dato alle fiamme e quel tunnel rappresentava la sua unica salvezza. Cercava di non voltarsi, di mantenere uno stato di calma, anche se sentiva un rumore sordo provenire dal luogo da cui era scappato. Sembrava il suono di un fiume in piena. Che si avvicinava velocemente. Ma non aveva tempo per riflettere, la sindrome dello spettro autistico di cui soffriva era come una bomba a orologeria per lui in quella situazione di stress. Il rumore sordo aumentava istante dopo istante, fino ad assomigliare sempre di un più a un rombo assordante. Iniziò a correre, ma sapeva di essere troppo lento, perché doveva orientarsi nel buio a tentoni. Il rombo era fortissimo, di qualsiasi cosa si trattasse lo stava per raggiungere. All’improvviso colpì qualcosa che non gli permise di proseguire la corsa. Il tunnel terminava con un muro. Dall’alto vide il riflesso di una luce, che illuminò una scaletta arrugginita. La vide un attimo prima che un fiume in piena raggiungesse il punto in cui si trovava. Dall’altra parte del tunnel i suoi inseguitori aveva deviato corso d’acqua che attraversava il bosco. 

Davide stava per svegliarsi. Il primario aveva dato istruzione sul blocco dei macchinari che lo tenevano in vita. 

L’impero aveva completato l’operazione di ricondizionamento degli equilibri politici dei principali stati con elezioni pilotate e aveva dato mandato di arrestare tutti i soggetti che risultavano immuni all’influenza della Macchina del Silenzio. 

Simona era stata arrestata e con lei gli scagnozzi che l’avevano rapita.

Anche Monica era stata arrestata mentre stava cercando di scappare all’estero.

Il mandato di arresto venne diramato anche anche per Davide, ma era stato sospeso poiché la sua condanna era già stata emessa. Sarebbe morto a breve.

Fabio riapri gli occhi lentamente, cercò di muovere le articolazioni, che continuavano a fargli male. Si guardò intorno, era solo. Si ricordò in quell’istante di essere riuscito ad allontanarsi dal tunnel pochi istanti prima che l’ondata di piena lo strascinasse via.

Cercò nella sua memoria quale fosse il passo successivo da fare. La sua memoria era fenomenale come magazzino di informazioni, da qualche parte era sicuro di poter ritrovare l’immagine la mappa della città. Si ricordò perfettamente la strada per raggiungere l’ospedale in cui si trovava Davide. Era lo stesso che aveva visto nel gioco Second Life.

Si avvicinò il più possibile all’ospedale. Nessuno aveva dato troppa importanza alla sua presenza, nemmeno quelle che sembravano essere delle guardie.

Si soffermò a guardare le planimetrie del piano di emergenza del fabbricato che erano appese a uno dei muri. Attese che attorno a lui ci fosse un momento in cui il personale fosse ridotto al minimo nell’area della reception dell’ospedale e riuscì a sgattaiolare dall’altra parte del bancone e ad accedere a uno dei computer. Un’impiegata era impegnata in quel momento a dare indicazioni al parente di un paziente. Aveva solo pochissimi secondi per interrogare il database dei ricoverati nella struttura. Soltanto per una stanza non era indicato il nome del degente. Era un’informazione più che sufficiente. 

Si avviò verso le scale e salì al terzo piano. Vide alcune guardie stazionare nel corridoio. 

Sentì alcuni dottori parlare. Capì che stavano pianificando lo spegnimento dei macchinari di un degente. Il sangue gli si gelò nelle vene.

Si avvicinò alla stanza in cui immaginò di potesse trovare Davide e aprì la porta lentamente. 

Non si era sbagliato, vide un uomo con il volto pallido, magro, che attendeva il proprio momento sul letto anonimo dell’ospedale, privo di conoscenza.

Sentì dei rumori provenienti dall’esterno della stanza, immaginò che mancasse poco all’inizio della procedura di spegnimento dei macchinari. Si nascose dietro un armadio nel momento in cui sentì aprirsi la porta. Sentì le voci degli infermieri che sistemavano le flebo e che ragionavano sulle ultime valutazioni del caso. 

Fabio sentì crescere la voglia di piangere. Avrebbe voluto riuscire a parlare, chiedere di fermarsi, urlare, semmai, chiedere aiuto. Ma non riusciva a fare niente di tutto questo. Dentro di lui sapeva che lo avrebbe portato via e non poteva permetterlo. Gli tornò in mente uno dei discorsi che la sua mamma gli aveva fatto, ricordava le sue raccomandazioni, i suoi discorsi sul futuro, su quanto sarebbe stato bello. La sua promessa che avrebbero sempre parlato, per ore e ore, di tutto. Ma lui a parlare non ci era mai riuscito e non riusciva a dimenticare le espressioni della sua mamma, quella delusione che emergeva, latente, quando c’erano attorno altre famiglie, altre mamme che parlavano e ridevano con i propri figli. Quell’espressione di chi sapeva che a lei non sarebbe mai successo. Ricordava tutte le volte che l’aveva sentita piangere, da sola. 

Avrebbe voluto piangere anche lui in quel momento. Ma si trattenne e riuscì a non farlo.

Rimase in attesa. Si accorse che gli infermieri erano usciti momentaneamente dalla stanza. Si avvicinò al letto di Davide e iniziò a scuotergli il braccio. Non vide nessuna reazione. L’uomo sembrava lontano. Sapeva che nel gioco era riuscito a parlarci e in quel momento gli era sembrato vigile. 

Avrebbe voluto essere in grado di parlargli, ma era prigioniero della malattia che gli avevano diagnosticato. Stava per andar via, mesto, quando la sua mano sfiorò quella di Davide e sentì un timido movimento di quel corpo.

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Il tempo del silenzio – Ep2

Ep2

Pechino

Jie aprì il pacco con cura. Posizionó gli imballaggi nell’area adibita alla raccolta e soppesó il piccolo contenitore. Sospirò e rimase un attimo a riflettere. Sapeva che una volta aperto non sarebbe più potuto tornare indietro. Ogni cosa sarebbe stata diversa. E non solo per lui. Indossò i guanti protettivi e lo aprì.

Silicon Valley

Jonathan aveva chiuso la telefonata simulando disinteresse, ma era consapevole che si trattava di un danno enorme per la sua società.
Il telefono continuava a squillare senza sosta. Era Jennifer, la sua collega che aveva invitato a cena. Interruppe la chiamata e spense il telefono. Aveva bisogno di pensare alla prossima mossa. Nel suo mondo non era possibile perdere nemmeno un istante. A ogni bit corrispondevano miliardi di guadagno. O di perdita. E lui non poteva permetterselo.
Si chiese se cercare altri compratori potesse apparire una manovra rischiosa. Aprì una bottiglia di vino italiano, lo versò in un calice e ne sorseggió il contenuto, mentre osservava il profilo dell’oceano. Forse la compagnia di Jennifer gli avrebbe fatto bene, ma non aveva tempo. Era arrivato il tempo di agire. Lasciò il calice sul tavolo e si chiuse nel suo ufficio. Aprì il laptop.

A pochi chilometri di distanza.

Jennifer scagliò il cellulare contro il muro e si ruppe in mille pezzi. Aveva atteso quel momento per molte settimane. Si guardò di sfuggita allo specchio. Aveva indossato un tubino nero aderente che non nascondeva molto.

Wuhan

L’uomo aveva inviato un videomessaggio a un suo collega medico che esercitava la professione a Pechino. Gli aveva raccontato del caso del paziente morto per complicazioni respiratorie il giorno prima. Si sentiva rassicurato, il suo collega gli aveva detto di non preoccuparsi, che sicuramente si era trattato di un caso isolato. Ma non era per niente convinto. Si controllò la temperatura corporea. Tutto regolare. Aveva soltanto un po’ di tosse secca. Una patologia assolutamente normale nel periodo invernale.

Pechino

Jie posò il microprocessore sul piano di lavoro e puntò la luce per osservarlo meglio. Si sentiva soddisfatto. Quell’oggetto rappresentava il duro lavoro degli ultimi anni. Per completare quel momento mancava soltanto un passaggio. Inserire il processore nella scheda madre di supporto e collegarla a un computer molto potente. Ma per quel momento avrebbe dovuto attendere. Un messaggio del suo capo era appena comparso sul display del cellulare. Era prevista una riunione imprevista e importante. La convocazione era imminente.

Il tempo del silenzio

Ep2

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