“La psicologa” è un romanzo di B.A. Paris molto conosciuto e apprezzato nella narrazione del genere thriller. Leggibile, ma con una trama per nulla originale. I personaggi principali, Alice, Leo, Thomas, Eve e gli altri abitanti di questo complesso chiuso di villette non sono memorabili. La trama risulta abbastanza scontata e la narrazione appare spesso noiosa e ripetitiva. I colpi di scena, quando ci sono, sembrano davvero “telefonati” e non ci sono veri momenti di suspense, piuttosto un tentativo di mischiare carte, di fatto tutte uguali. Un thriller non convincente e direi trascurabile: non brutto, non bello, non particolarmente intrigante. Gioca la sua trama sulla storia di una donna, Alice, che si trasferisce in una villetta con il suo fidanzato Leo. Lei, però, al contrario di Leo, non sa che quell’abitazione è stata teatro di un efferato omicidio di una giovane ragazza, Nina, a opera del suo fidanzato Oliver. Alice, però, non crede che sia stato lui a ucciderla, così inizia ad aiutare l’investigatore Thomas nella ricerca del vero assassino. Una ricerca che appare spesso goffa e patetica, imbarazzante, a tratti. Insomma, un disastro. Così, il finale non può che essere tutto sommato scontato. Thriller anonimo e a tratti bruttarello.
“La psicologa” è un romanzo di B.A. Paris molto conosciuto e apprezzato nella narrazione del genere thriller. Leggibile, ma con una trama per nulla originale. I personaggi principali, Alice, Leo, Thomas, Eve e gli altri abitanti di questo complesso chiuso di villette non sono memorabili. La trama risulta abbastanza scontata e la narrazione appare spesso noiosa e ripetitiva. I colpi di scena, quando ci sono, sembrano davvero “telefonati” e non ci sono veri momenti di suspense, piuttosto un tentativo di mischiare carte, di fatto tutte uguali. Un thriller non convincente e direi trascurabile: non brutto, non bello, non particolarmente intrigante. Gioca la sua trama sulla storia di una donna, Alice, che si trasferisce in una villetta con il suo fidanzato Leo. Lei, però, al contrario di Leo, non sa che quell’abitazione è stata teatro di un efferato omicidio di una giovane ragazza, Nina, a opera del suo fidanzato Oliver. Alice, però, non crede che sia stato lui a ucciderla, così inizia ad aiutare l’investigatore Thomas nella ricerca del vero assassino. Una ricerca che appare spesso goffa e patetica, imbarazzante, a tratti. Insomma, un disastro. Così, il finale non può che essere tutto sommato scontato. Thriller anonimo e a tratti bruttarello.
“Lilo & Stitch” è un film che, come spesso accade con la Disney, offre due livelli di lettura della trama. Il primo è la storia dell’esperimento alieno 626, un alieno cattivo e pericoloso che, fuggendo sulla Terra, incrocia la storia di Lilo, una ragazzina in crisi a causa della mancanza dei genitori e che sogna di trovare un vero amico. Il secondo livello parte proprio dalla storia di Lilo e della sorella maggiore Nani, che si ritrova sulle spalle la responsabilità di tutelare la sorella minore, dovendo convincere gli assistenti sociali della sua capacità di avere la necessaria solidità. L’intreccio si sviluppa con il cambiamento di Stitch, che impara il significato di famiglia, facendo suo il motto dei genitori delle due ragazze: in una famiglia “nessuno viene abbandonato, né dimenticato“. Così Lilo e Stitch si difenderanno a vicenda, dando origine a momenti di autentica commozione, grazie anche a uno schema narrativo coinvolgente nella sua semplicità e nel paradosso che mette in luce, oltre a quello di famiglia, il concetto più profondo di diversità e di pregiudizio.
Ninfee nere è un romanzo di Michel Bussi, che si poggia su un’architettura narrativa perfetta. Gli intrecci della trama, ma anche delle tempistiche di svolgimento sono costruite mediante giochi di specchi, che consentono di giungere alla conclusione con l’attesa del finale ed è ciò che si attende da un thriller e in questo non tradisce le attese e si dimostra all’altezza delle recensioni con votazioni altissime. I personaggi sono ben costruiti e strutturati, a partire dalla voce narrante, a Stephanie, Jacques, Fanette e i detective Sylvio Bénavides e il suo superiore Laurenç Sérénac. Splendida anche l’ambientazione, una Giverny, il villaggio situato in Normandia, noto per essere il luogo in cui ha vissuto e dipinto il grande pittore impressionista Claude Monet. Le descrizioni rendono giustizia ai paesaggi svelati dai dipinti del celebre pittore. Un romanzo sicuramente consigliato, avvolgente e con una lettura scorrevole e gradevole.
Cercava di correre il più veloce possibile, ignorando il dolore ai muscoli e i battiti del cuore che viaggiavano troppo veloce. Girò all’angolo, sperando di far perdere le sue tracce, ma il suo inseguitore era sempre lì, a ridosso. Entrò in un negozio, per uscire di corsa dal retro e correre in strada, in direzione opposta. Solo una settimana prima aveva finito le riprese della nuova seria in cui interpretava un exagente alle prese con un complotto mondiale, ora doveva seminare dei seguri armati. Si nascose tra la folla e imboccó una stradina secondaria, per poi entrare in un portone e uscire dal retro. Corse ancora per raggiungere una via trafficata e nascondersi in mezzi alle persone. Cercò un punto di osservazione sicuro e individuó i suoi inseguitori. Sentí vibrare il telefono nella tasca dei pantaloni. In quel momento decise di muoversi lungo la via. Lanserie era composta da dieci puntate, la trama aveva inizio con il ritrovamento di un cadavere di una giovane, il cui corpo era stato trovato privo di vestiti, in una zona industriale della provincia torinese. A colpire il detective, che lui interpretava era stato un tatuaggio. Un fenicottero armato. Entrò in un portone e cercò un uscita sul retro, ma non la trovò. In quel momento sentí il portone aprirsi e decise di salire le scale. Il detective aveva chiesto a un agente giovane di cercarlo in rete. Il giovane agente aveva effettuato una ricerca mediante applicazione di intelligenza artificiale. Il tatuaggio aveva portato a dei video di una ragazza nota nel settore per attività legate a una famosa piattaforma di condivisione di servizi hard. La cosa che aveva colpito l’agente è che, per quanto la posizoje del tatuaggio e in generale della corporatura stessa della ragazza combaciassero con quella del cadavere, il volto fosse differente. Salí all’ultimo piano del palazzo e si guardò intorno. Nessuna via di fuga. Il telefono continuava a squillare. Prese in mano il dispositivo e vide chi stava chiamando. Era la sceneggiatrice della serie. Rispose. “Stanno cercando di entrare. Dalla centrale non risponde nessuno!”, sentí dalla voce della donna. “Stanno cercando anche me. E mi hanno trovato”. “Che facciamo?” Alla fine della decima puntata il detective e la sua collega, una giovane investigatrice, tramite le ricerche della divisione informatica avevano trovato un fabbricato da cui partivano diverse connessioni. Con l’ausilio delle forze di assalto erano entrati. Avevano trovato nel capannone una serie di server e computer attivi che riempivano l’intero capannone. I due uomini uscirono dal vano scala e iniziarono a muoversi nell’area del tetto alla ricerca del protagonista. Mediante una riverca approfondita delle linee di connessione avevano individuolato un secondo fabbricato, un vecchio albergo trasformato in una casa di appuntamenti in cui delle giovani donne venivano costrette a rapporti sessuali e i cui video venivano veicolati su una piattaforma, previo filtro dell’immagine che trasformava i volti e generata un profilo nuovo che veniva utilizzato per il marketing e per le attività collaterali, vendita on line di immagini e video personalizzati. Il protagonista era riuscito a scendere lungo un pluviale e a salire su un balcone, sfondando il vetro con un vaso era riuscito a entrare nell’appartamento. Dal cellulare, rimasto attivo sulla linea aveva sentito dei rumori, colpi di pistola. Credeva nelle capacità della sua collega, detective di razza. ormai la loro copertura era saltata. Il capannone con i server nob era che una piccola parte dj un sistema più complesso. In quel momento erano in corso gli arresti dei componenti dell’organizzazione. Ma era consapevole che si trattava di una cellula di un sistema molto più ampio e sviluppato. Scese lungo una seconda scala e si reimmise sul marciapiede affollato e fece perdere le sue tracce. “Sei ancora li?” disse, riposizionando il cellulare all’orecchio. “Sono al sicuro. Tu?” “Anche io.” “Il nostro lavoro non è finito.” “Il nostro lavoro è appena iniziato.”
La serie Bosch: Legacy (Amazon Prime) si discosta dalla serie principale Bosch, seguendo la linea narrativa dei romanzi di Michael Connelly. Si colloca successivamente al momento in cui il detective Bosch lascia l’LAPD per intraprendere l’attività di investigatore privato. Rispetto ai romanzi, in questa serie viene dato un ruolo più rilevante alla figlia Madeline Bosch, che viene assunta come agente proprio nell’LAPD. Con Bosch c’è il giovane hacker Maurice ‘Mo’ Bassi, che lo assiste nelle diverse indagini. Viene esplorato anche il lato oscuro del detective e viene messo in luce il rapporto fra lui e l’avvocatessa Honey Chandler, che in diversi momenti ricalca il ruolo dell’avvocato Michael Haller dei romanzi. Di questo personaggio ho già parlato nell’ambito della serie L’Avvocato di difesa, disponibile su Netflix. Le serie Bosch: Legacy sono meno incisive rispetto alle ultime quattro della serie principale. Pesa un po’ il ricambio di diversi attori, che tornano solo con dei camei in alcuni episodi. In ogni caso, le trame sono sempre ben architettate e gradevoli, e lo sviluppo del rapporto tra padre e figlia è molto interessante, anche nel progredire delle due strade professionali intraprese dai protagonisti. La componente psicologica rappresenta un punto di forza della serie in generale. Ultimo tassello, compare un nuovo protagonista tratto dai romanzi, il detective Renée Ballard, chiaro segno che la storia continuerà. Per chi ama i polizieschi, Bosch può considerarsi un classico. Personalmente, ho apprezzato l’abilità di Connelly nella trasposizione delle sue storie sullo schermo, modificando e adattando storie e personaggi alla nuova narrazione con assoluta maestria.
Ci sono luoghi in cui hai lasciato il cuore. Luoghi che, però, oggi trovi diversi, anche se nulla sembra davvero cambiato. Ma sei cambiato tu. Forse a causa delle delusioni, magari delle illusioni, rivelatesi, col tempo, tali. Forse perché, poi, lo hai capito, che sfruttavano i tuoi sogni. Oggi è più difficile, perché quei sogni non ci sono più. Resta la lucidità, con la quale oggi riesci a vedere meglio. La verità è che ti sentivi parte del circo. Probabilmente eri solo il pagliaccio. Oggi sei uno qualsiasi del pubblico. Un po’ dispiace. Ma solo un po’. In tasca hai ancora il tuo naso finto. Ma non fai più ridere. Perché per far ridere ci vuole quel cuore, che oggi, qui, in questo circo, non c’è più.
Il romanzo “La Famiglia” di Jo Nesbo è il seguito de “Il Fratello”. È la storia dei fratelli Roy e Carl, alle prese con la gestione del nuovo albergo di Os, una piccola cittadina, in cui si mischiano rapporti e relazioni personali, conflitti, odi e amori. Omicidi. Così, Roy, il fratello maggiore, ancora affranto per la perdita di Shannon, moglie del fratello Carl, ma con la quale era in procinto di costruirsi una nuova vita, reincontra Natalie, una ragazza che aveva salvato dai soprusi del padre, e scopre che può innamorarsi nuovamente e costruire qualcosa. Ma per costruire, talvolta, bisogna distruggere qualcosa. Una storia che distorce il concetto di potere e successo, lo amplifica e lo declina negli aspetti più oscuri delle relazioni interpersonali. Un intreccio di eventi e di emozioni contrastanti per una trama che affascina e che ben si lega a quella del primo romanzo. Jo Nesbo è un maestro del thriller e non lo scopriamo certo solo adesso.
I gruppi reazionari si erano moltiplicati, vivendo nei sotterranei. Metropolitane abbandonate. Ex bunker. I soggetti che non reagivano al potente segnale, riuscivano a costruire e difendere il proprio pensiero e ben presto la ricerca di risposte era diventata la priorità. Gli uomini nel nuovo Impero erano sempre alla ricerca dei covi, che puntualmente finiscano per essere individuati. Bastava un segnale: ricerca di elettricità, di rete, di cibo e nel covo arrivava un gruppo di soldati armati e preparati ad annientare i soggetti reazionali, che non venivano uccisi, ma trasferiti ai centri di rieducazione mentale. Ai soggetti che non rispondevano al segnale veniva installato un amplificatore al di sotto della calotta cranica. Questa operazione spesso culminava con il decesso del soggetto o con il rigetto del dispositivo. Sylvie Brahms si trovava in uno dei pullman che conduceva al centro. Da qualche tempo aveva iniziato a percepire qualcosa attorno a lei, mentre lavorava come barista. C’erano volute settimane perché si ricordasse chi davvero lei fosse e che il suo lavoro, prima della riconversione. Lei era una detective. Vide il cancello aprirsi per lasciare entrare il pullman. Attorno a lei vedeva persone con lo sguardo perso, altre terrorizzato. Il suo unico obiettivo era capire, nell’ordine, come studiare il funzionamento del centro e come uscirne viva.
C’erano giorni in cui era più difficile, in cui Laura si sentiva più stanca. Giorni in cui il passato riusciva ancora a farle male, come se avesse ancora il potere di drenare le tue energie. Di dar fuoco ai suoi sogni. A coprire ogni cosa positiva con la sua patina di melma maleodorante. Ci erano voluti anni per riuscire a guardarsi allo specchio. Per accettarsi, pochi istanti prima che quello stesso specchio le rivomitasse indietro un’immagine sporca. Fanculo, sussurrò. Non è giusto. Aveva voglia di urlare, ma lo sapeva che un adulto non può farlo. La locandina sulla parete le raccontava che tutte le date della tournée erano sold out, ma quella telefonata le aveva tolto ogni euforia per lo spettacolo che l’avrebbe avvolta da lì a poco. Non c’è abito di scena, quando il passato torna a bussare. Non c’è copione, quando ti mancano le parole. Sul tavolo, sotto la specchiera, c’era un biglietto di sola andata verso un posto lontano. Oltre le mura del camerino, un altro palcoscenico. Un altro ruolo da recitare. Un altro nome da indossare. Un altro giorno per dimenticare.