Siamo tutti colpevoli

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Io non ti conoscevo.
Oggi conosco solo il tuo nome.
Eppure, vorrei chiederti scusa.
A nome degli uomini.
Capaci anche della bestialità che ti ha uccisa.
Della vigliaccheria.
Dell’infamia.
Vorrei chiederti scusa per non essere stati capaci di abbandonare una cultura malata, che vuole la donna come una proprietà.
Per essere fragili, impotenti di fronte a emozioni che ci rendono piccoli. Trascurabili, ridicoli.
Giulia, io me ne vergogno.
Mi vergogno di far parte di un genere che tra le sue fila espone mostri, spesso cullati e compatiti dalle proprie famiglie. Che usano la violenza, il proprio fallimento, come loro unica capacità.
Sarebbe troppo facile prendere le distanze. Ma quel genere comprende anche me. È un genere che, oggi più che mai, mi fa schifo.
Ti chiedo scusa. La frase rituale di tutti quelli che picchiano la propria compagna, per poi rifarlo ancora.
No, non posso nemmeno chiederti scusa.
Oggi non possono esserci scuse.
Oggi siamo tutti colpevoli.

Esce #LaRispostaénelNome

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Oggi esce #LaRispostaénelNome.


Scrivere questo romanzo è stato per me molto difficile.

Un po’ perché si tratta di una storia molto più intensa e sofferta rispetto alle mie precedenti, un po’ perché ho dovuto scriverla e riscriverla, affinché potesse essere raggiunto il giusto equilibrio tra l’amore e il dolore, tra i diversi sentimenti che questa trama voleva e vuole trasmettere.
Non so dire se io ci sia riuscito o meno, questo spetta ai lettori dirlo.


Perché questa storia non è più mia, ma vostra.
Anzi, nostra.


Perché nella storia di Lorenzo c’è un po’ la storia di tutti noi.


Nelle nostre cadute e nel nostro rialzarci.


Poi, ci sono tutti gli altri, quelli che si siedono sui spalti. Quelli che noi dobbiamo ogni giorno fare ridere o piangere.
Consapevoli che poi, in camerino, davanti allo specchio, rimarremo solo noi a raccontarci se sia stato un successo, oppure l’ennesimo fallimento.


Senza alcun trucco.

Consapevoli che, comunque sarà andata, sul palco ci risaliremo ancora.


Perché noi siamo fatti così.

L’altalena di Marco Masini

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L’altalena di Marco Masini racconta la storia del cantautore nei dettagli e retroscena che ne hanno delineato successi e insuccessi di una carriera caratterizzata da luci e ombre. Avevo già letto una biografia del cantautore, ma in questa si entra nel vivo di un punto cruciale, ovvero della forma di malessere che ha caratterizzago la vita artistica del cantautore, in particolare in relazione alla diceria che lo definiva tra gli adetti ai lavori un “porta sfortuna”. Situazione che man mano lo aveva isolato e tenuto lontano dai palchi più importanti per molto tempi, fino a costringerlo al ritiro dalle scene. Parla dell’affetto dei suoi fan, che lo hanno spinto a continuare. Del rapporto con gli autori, in primis Bigazzi, che con lui hanno dato vita ai più grandi successi, delle rotture, gli allontanamenti e delle crisi che hanno portato ogni volta a una rinascita. Ho trovato tuttavia questo libro ingiusto nei confronti delle canzoni che l’autore ha creato nel tempo, come se fossero soltanto alcune ad aver lasciato un segno. È il caso del disco “Scimmie”, bellissimo, ma considerato di fatto un errore. Questo libro racconta l’ipocrisia della musica, di quanto sia necessario fingere per mantenere il successo. Nel leggerlo ci si sente delusi, scoprendo così di aver seguito per anni uno spettacolo finto, perché per molti che hanno seguito con lui quel viaggio ora scoprono che erano in viaggio su un pulman di cartone. È vero, il mondo della musica è stato crudele, ma lo è stato anche il mondo normale, in cui chi ascoltava quelle canzoni era considerato a sua volta un perdente. C’era musica migliore ai tempi e c’è stata anche dopo, si è scelto di percorrere quella strada, inconsapevolmente, senza sapere che dietro quelle canzoni non ci fosse molto altro che presunzione. L’altalena è un libro che, più che raccontare, vuole giustificare scelte e posizioni. Trasuda rimpianto per il successo di un tempo. Sicuramente raccontare quella storia può essere stato liberatorio, speriamo sia l’inizio di un nuovo percorso, meno legato al passato e più in ottica di futuro artistico.

Foto: fonte web (Mondadori)

Quelle scale sconosciute

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Si era risvegliata nuda in un letto di un tizio conosciuto solo il giorno prima. Il rumore delle ferite sotto pelle non accennava a diminuire. Aveva solo voglia di dimenticare. Di bere e dimenticare. Tra qualche minuto avrebbe dovuto trovare l’ennesima scusa per sgattaiolare fuori da un letto, rivestirsi in fretta senza farsi guardare e tornare alla sua vita di sempre. Continuando poi a chiedersi quale fosse “la vita di sempre”. Quella in cui non puoi fidarti di nessuno? Quella in cui è così facile tradire o essere traditi? Quella in cui il sesso è un giocattolo divertente dal non saperne più fare a meno? E lei all’amore ci aveva sempre creduto, lo aveva difeso così tanto dal negare, negare, negare e ancora negare che ci fossero dei problemi nella sua relazione. Ma poi tutto era diventato sin troppo evidente. Fino a sentirai stupida. Così tutto il castello che aveva nel tempo costruito era crollato. E ora, restava solo lei. Voglio restare sola, si disse, mentre silenziosamente scendeva quelle scale sconosciute. Ma forse sola lo era sempre stata, o meglio, era come si era sempre sentita negli ultimi anni, quando lui usciva per tornare alle ore più strane, tornando sempre con scuse via, via sempre più fantasiose. Chiamò un taxi, una volta realizzato che si trovava dall’altra parte della città e che non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo a lavoro. Mentre il mondo scorreva via dal finestrino dell’auto, giurò a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta. Ma sul gruppo WhatsApp delle amiche era appena comparso un messaggio: “aperto nuovo locale, bella gente da conoscere. Chi viene?”
“Io ci sono”, rispose, senza alcun indugio.

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Non c’era alcuna poesia nei suoi occhi

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Non c’erano più foglie sugli alberi, da guardare cadere.
Come comete silenziose, si erano posate per terra.
Ma non c’era alcuna poesia nei suoi occhi, solo un semplice cinismo. Lo stesso che lo metteva di fronte a una certezza: il tempo passa in fretta.
E che, come lui, passano tante altre cose, come i treni, i momenti, le occasioni. I ricordi.
Si rese conto che restare a osservare quelle foglie non sarebbe servito per riportarle sui rami.
E che non voleva attendere la primavera per vederle rinascere.
Raccolse i pensieri. Indossò il pesante cappotto e uscì in strada.
Aveva scelto cosa fare. Avrebbe comprato un nuovo quaderno. E lì, il tempo lo avrebbe fermato.
Perché quelle foglie, le avrebbe disegnate.

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Ed è stupido soffrirne

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Il muro scrostato raccontava di un mondo che non c’era più. Così anche vederla andar via non era stato doloroso come aveva immaginato. L’aveva amata, sì, per tanto tempo. Lei, però, non lo aveva mai scelto, lasciandolo sempre lì sulla porta, ad attendere un giorno che non sarebbe arrivato mai. Così, un giorno, aveva iniziato a togliere la muffa dai muri, a raschiare tanto forte le pareti, da rivedere, strato dopo strato, cosa c’era stato prima. Vernici, carte da parati e poi, alla fine, i mattoni. Aveva capito che una casa non sta in piedi grazie ai colori che indossa. E che quello che gli era sembrato amore, altro non era se non semplice carta da parati. In fondo, si disse, non puoi perdere qualcosa che non hai mai avuto. Ed è tanto più stupido soffrirne. A volte perdere qualcosa è l’unico modo per ritrovarsi, con quei mattoni stanchi, inumiditi, ammiffiti, forse, ma ancora capaci di tenere in piedi ogni cosa. Il treno che l’aveva portata via era partito già da tempo, la sala d’aspetto era ormai deserta. Dalla vetrata vide un bar. Sicuramente dopo un buon caffè avrebbe visto tutto per ciò che era davvero. Un nuovo giorno e un nuovo inizio.

Fuori dalle iridi

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I lividi sulle braccia non le facevano male quanto l’umiliazione che si era sedimentata dentro.
Le parole le scivolavano addosso, come gocce silenziose.
E cos’è un insulto, se non un ammasso di lettere, si diceva.
Ma lei non ci credeva davvero.
Lei una felicità voleva viverla davvero.
Lei una via di fuga la pretendeva.
Così chiuse il diario, gettò la penna contro il muro con tutta la sua forza.
E ciò che le restava nell’anima, si guardò allo specchio.
I suoi occhi erano neri, anche fuori dalle iridi.
Promise a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta.
Che non avrebbe più creduto alle scuse, alle promesse, ai sorrisi del giorno dopo.
Forse, non avrebbe amato mai più.
Probabilmente avrebbe imparato a odiare.
Ma sarebbe stato il giusto prezzo, per la libertà.

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