La quinta guerra – Ep01

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I gruppi reazionari si erano moltiplicati, vivendo nei sotterranei. Metropolitane abbandonate. Ex bunker. I soggetti che non reagivano al potente segnale, riuscivano a costruire e difendere il proprio pensiero e ben presto la ricerca di risposte era diventata la priorità. Gli uomini nel nuovo Impero erano sempre alla ricerca dei covi, che puntualmente finiscano per essere individuati. Bastava un segnale: ricerca di elettricità, di rete, di cibo e nel covo arrivava un gruppo di soldati armati e preparati ad annientare i soggetti reazionali, che non venivano uccisi, ma trasferiti ai centri di rieducazione mentale. Ai soggetti che non rispondevano al segnale veniva installato un amplificatore al di sotto della calotta cranica. Questa operazione spesso culminava con il decesso del soggetto o con il rigetto del dispositivo. Sylvie Brahms si trovava in uno dei pullman che conduceva al centro. Da qualche tempo aveva iniziato a percepire qualcosa attorno a lei, mentre lavorava come barista. C’erano volute settimane perché si ricordasse chi davvero lei fosse e che il suo lavoro, prima della riconversione. Lei era una detective. Vide il cancello aprirsi per lasciare entrare il pullman. Attorno a lei vedeva persone con lo sguardo perso, altre terrorizzato. Il suo unico obiettivo era capire, nell’ordine, come studiare il funzionamento del centro e come uscirne viva.

Immagine creata con IA Gemini

Un altro giorno

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C’erano giorni in cui era più difficile,
in cui Laura si sentiva più stanca.
Giorni in cui il passato riusciva ancora a farle male,
come se avesse ancora il potere di drenare le tue energie.
Di dar fuoco ai suoi sogni.
A coprire ogni cosa positiva con la sua patina di melma maleodorante.
Ci erano voluti anni per riuscire a guardarsi allo specchio.
Per accettarsi,
pochi istanti prima che quello stesso specchio le rivomitasse indietro un’immagine sporca.
Fanculo, sussurrò.
Non è giusto.
Aveva voglia di urlare,
ma lo sapeva che un adulto non può farlo.
La locandina sulla parete le raccontava che tutte le date della tournée erano sold out,
ma quella telefonata le aveva tolto ogni euforia per lo spettacolo che l’avrebbe avvolta da lì a poco.
Non c’è abito di scena,
quando il passato torna a bussare.
Non c’è copione,
quando ti mancano le parole.
Sul tavolo, sotto la specchiera, c’era un biglietto di sola andata verso un posto lontano.
Oltre le mura del camerino,
un altro palcoscenico.
Un altro ruolo da recitare.
Un altro nome da indossare.
Un altro giorno per dimenticare.

Quelle scale sconosciute

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Si era risvegliata nuda in un letto di un tizio conosciuto solo il giorno prima. Il rumore delle ferite sotto pelle non accennava a diminuire. Aveva solo voglia di dimenticare. Di bere e dimenticare. Tra qualche minuto avrebbe dovuto trovare l’ennesima scusa per sgattaiolare fuori da un letto, rivestirsi in fretta senza farsi guardare e tornare alla sua vita di sempre. Continuando poi a chiedersi quale fosse “la vita di sempre”. Quella in cui non puoi fidarti di nessuno? Quella in cui è così facile tradire o essere traditi? Quella in cui il sesso è un giocattolo divertente dal non saperne più fare a meno? E lei all’amore ci aveva sempre creduto, lo aveva difeso così tanto dal negare, negare, negare e ancora negare che ci fossero dei problemi nella sua relazione. Ma poi tutto era diventato sin troppo evidente. Fino a sentirai stupida. Così tutto il castello che aveva nel tempo costruito era crollato. E ora, restava solo lei. Voglio restare sola, si disse, mentre silenziosamente scendeva quelle scale sconosciute. Ma forse sola lo era sempre stata, o meglio, era come si era sempre sentita negli ultimi anni, quando lui usciva per tornare alle ore più strane, tornando sempre con scuse via, via sempre più fantasiose. Chiamò un taxi, una volta realizzato che si trovava dall’altra parte della città e che non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo a lavoro. Mentre il mondo scorreva via dal finestrino dell’auto, giurò a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta. Ma sul gruppo WhatsApp delle amiche era appena comparso un messaggio: “aperto nuovo locale, bella gente da conoscere. Chi viene?”
“Io ci sono”, rispose, senza alcun indugio.

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Non c’era alcuna poesia nei suoi occhi

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Non c’erano più foglie sugli alberi, da guardare cadere.
Come comete silenziose, si erano posate per terra.
Ma non c’era alcuna poesia nei suoi occhi, solo un semplice cinismo. Lo stesso che lo metteva di fronte a una certezza: il tempo passa in fretta.
E che, come lui, passano tante altre cose, come i treni, i momenti, le occasioni. I ricordi.
Si rese conto che restare a osservare quelle foglie non sarebbe servito per riportarle sui rami.
E che non voleva attendere la primavera per vederle rinascere.
Raccolse i pensieri. Indossò il pesante cappotto e uscì in strada.
Aveva scelto cosa fare. Avrebbe comprato un nuovo quaderno. E lì, il tempo lo avrebbe fermato.
Perché quelle foglie, le avrebbe disegnate.

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Ed è stupido soffrirne

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Il muro scrostato raccontava di un mondo che non c’era più. Così anche vederla andar via non era stato doloroso come aveva immaginato. L’aveva amata, sì, per tanto tempo. Lei, però, non lo aveva mai scelto, lasciandolo sempre lì sulla porta, ad attendere un giorno che non sarebbe arrivato mai. Così, un giorno, aveva iniziato a togliere la muffa dai muri, a raschiare tanto forte le pareti, da rivedere, strato dopo strato, cosa c’era stato prima. Vernici, carte da parati e poi, alla fine, i mattoni. Aveva capito che una casa non sta in piedi grazie ai colori che indossa. E che quello che gli era sembrato amore, altro non era se non semplice carta da parati. In fondo, si disse, non puoi perdere qualcosa che non hai mai avuto. Ed è tanto più stupido soffrirne. A volte perdere qualcosa è l’unico modo per ritrovarsi, con quei mattoni stanchi, inumiditi, ammiffiti, forse, ma ancora capaci di tenere in piedi ogni cosa. Il treno che l’aveva portata via era partito già da tempo, la sala d’aspetto era ormai deserta. Dalla vetrata vide un bar. Sicuramente dopo un buon caffè avrebbe visto tutto per ciò che era davvero. Un nuovo giorno e un nuovo inizio.

Fuori dalle iridi

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I lividi sulle braccia non le facevano male quanto l’umiliazione che si era sedimentata dentro.
Le parole le scivolavano addosso, come gocce silenziose.
E cos’è un insulto, se non un ammasso di lettere, si diceva.
Ma lei non ci credeva davvero.
Lei una felicità voleva viverla davvero.
Lei una via di fuga la pretendeva.
Così chiuse il diario, gettò la penna contro il muro con tutta la sua forza.
E ciò che le restava nell’anima, si guardò allo specchio.
I suoi occhi erano neri, anche fuori dalle iridi.
Promise a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta.
Che non avrebbe più creduto alle scuse, alle promesse, ai sorrisi del giorno dopo.
Forse, non avrebbe amato mai più.
Probabilmente avrebbe imparato a odiare.
Ma sarebbe stato il giusto prezzo, per la libertà.

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Non può che farti bene

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Giulia si sentiva sbagliata.
Continuare a guardare quello specchio non le sarebbe servito a nulla.
Lo sapeva bene di essere bella, a confermarlo erano gli sguardi degli altri. Ma sapeva anche di sentirsi troppo lontana da ciò che quelle persone vedevano.
Anche quella notte aveva vomitato.
Ogni notte lasciava affondare il suo segreto in quel cesso. Ormai era una donna, ma quanto ci si può sentire trasparenti nel bel mezzo di un mondo che ha ben altro a cui pensare?
Qualche giorno prima aveva incontrato un ragazzo, era stato simpatico, avvolgente, così strano e differente da quella sfera di regole, convenzioni e pregiudizi in cui non si ritrovava. Le aveva detto “Giú, ti faccio provare una cosa”. Così lei aveva preso dalle sue mani una pastiglia. “Giú, non ti può che fare bene”.
Quella notte avevano ballato per tutto il tempo.
Quella notte non aveva nemmeno vomitato.
Eppure, di fronte a quello specchio, nulla era poi cambiato.
“Giú, stasera ti porto in un posto. Non può che farti bene.”
“Chissà quanto è alto il prezzo di sentirsi sbagliati”.
“Chissà se poi passa”, si chiedeva, mentre tutto attorno girava sempre più forte.
“Chissà se esiste davvero un mondo più giusto”, si domandò.
Ma si sentiva troppo stanca. Anche se, sotto gli occhi di tutti, non poteva permettersi di smettere di ballare.
“Vorrei solo tornare a casa”, si sussurrò.

Il suono di un nome

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Il camioncino aveva portato via le ultime cose.
Lo stabilimento balneare, per come lo ricordava, ormai non esisteva più.
Percorse il tragitto che dall’ingresso conduceva verso la spiaggia.
Dove per decenni c’erano stati i suoi ombrelloni, c’era solo sabbia e l’odore del vento di autunno.
Il vento sembrava quasi riportare il ricordo del vociare dei bambini, degli amori nati e finiti velocemente.
Si voltò verso i vecchi locali prefabbricati, per anni adibiti a cabine e spogliatoi. Le porte in legno, ormai logoro, che avevano visto passare le storie di migliaia di bagnanti.
A ricordarle ciò che stava per diventare passato, una barchetta che riposava a poca distanza dalla battigia.
Suo marito, quella barca, l’aveva amata tanto. A tal punto da assumersi la gestione dello stabilimento, attivitá che lei aveva ereditato da suo padre.
Ben presto quello che sembrava un salto nel buio si era tramutato in un vortice fallimentare. Lui aveva presto litigato con il personale storico dello stabilimento. Si era convinto che sarebbe riuscito a immettere personale giovane e più moderno. Ma i nuovi arrivati non c’entravano niente con quella realtà.
A nulla erano valsi i rimproveri, le minacce di licenziamento.
Dopo due anni, nessuno voleva più lavorare nello stabilimento.
Pian piano i vecchi clienti si erano trasferiti altrove.
Ora si rendeva conto che il silenzio che stava ascoltando, era iniziato molto tempo prima.
La barchetta era immersa nella sabbia, alzata dal vento che proveniva dal mare.
Si chiuse meglio il giubbotto per difendersi dal vento, o forse da quei ricordi, ormai troppo pungenti.
Ripensó a suo padre. A quando da bambina l’aveva lasciata scorrazzare per lo stabilimento. Alle prime esperienze lavorative, quando alla cassa assegnava gli ombrelloni disponibili, sotto l’occhio vigile del nonno, che a sua volta aveva gestito quello stabilimento.
Chissà cosa avrebbe pensato di lei, che aveva lasciato naufragare tutto, così, nel silenzio.
Si chiese se davvero fosse colpa sua. Forse l’errore era stato non vendere prima ai diretti concorrenti.
Forse l’errore era stato amare Carlo, il suo ex marito che un giorno aveva candidamente ammesso di essersi innamorato della signora che dava una mano a pulire lo stabilimento. E che con la stessa serenità aveva comunicato che sarebbe andato a vivere con lei.
Lanciò un ultimo sguardo a quella barchetta, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta. Sperando, poi, di ricominciare a vivere.
Il nome della barca era stato quasi del tutto cancellato dalla fiancata. Il nome che suo padre le aveva dato: Romanza.

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Sei un fallito

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– Fallito – gli urlava il nuovo compagno di sua madre.
Valerio teneva testa a quell’uomo che puzzava di alcool.

– Non sei capace! Cosa ci vai a fare all’Università? Finirai comunque per andare a raccogliere cartoni. Tanto vale andarci subito e contribuire alle spese! – continuava lui.

Valerio tratteneva la rabbia, la tristezza e l’umiliazione. L’unica strada che aveva per costruirsi una vita era studiare. Ma farlo ogni giorni diventava sempre più difficile. Per frequentare l’Università servivano soldi e tempo. Ma stava per perdere anche l’unico dei punti di cui poteva disporre: la determinazione.
Valerio studiava di notte, mettendoci l’anima. Continuava a dare esami, senza tregua, perché sapeva che gli avrebbe concesso ancora un po’, vincendo una borsa di studio. Quello era l’unico modo per continuare ad alimentare quella che gli sembrava sempre più una stupida illusione.

– Non hai niente da dire? Pensi a quando potrai finalmente progettare cessi? – concluse, ridendo.
Sua madre avrebbe voluto difenderlo, ma non poteva farlo. Perché dipendeva dagli umori di quella bestia.
Valerio aveva sentito più volte nella sua vita cedere il terreno sotto i suoi piedi.

Si alzò e si soffermò a osservare l’immagine della copertina di un libro proiettata sul muro.
Quante volte nella sua vita aveva trovato difficile guardarsi anche solo guardarsi allo specchio senza sentire il peso delle sue sconfitte.

Poggiò una mano, come per sostenersi, sul tavolo che sarebbe servito da lì a breve per un’altra presentazione.

Valerio aveva iniziato a vomitare per sopportare quel senso di buio che sentiva salire ogni volta dall’esofago. Rimettere quel poco che riusciva a mangiare ed era ogni volta come una liberazione. Una forma arcaica di reazione, che però non faceva altro che mandarlo ancora di più al tappeto.

Il momento peggiore, però, era arrivato quando aveva sbagliato il primo esame. Un momento di buio totale che non gli aveva permesso di rispondere nel modo corretto, nonostante avesse studiato e fosse ben più che preparato. Il suo cervello lo aveva abbandonato nel momento in cui ne aveva più bisogno e in quel momento non aveva avuto nemmeno la forza di ammetterlo. Perché avrebbe avuto bisogno di mangiare, di riabilitarsi, di rialzarsi. Ma l’unica necessità che sentiva salire dal suo stomaco era solo una. Continuare a vomitare.

– Possiamo già iniziare a sedersi? – chiese una signora che era appena entrata nella sala.

Valerio la guardò, riprendendosi un attimo dai suoi pensieri.

– Sì, certo. – rispose, osservando altre persone che stavano entrando.

Si allontanò da quel gruppo di persone che man mano stava diventando sempre più numeroso.

– Buongiorno, sono Alessandra, la giornalista. Ci siamo sentiti telefonicamente, lei è Valerio, immagino –

Valerio gettò ancora uno sguardo allo schermo che proiettava un’immagine della copertina di un libro. Si chiamava “Fallito”.

– È pronto a raccontare a tutta questa gente la sua storia? ­–

In quel momento si rese conto che quella copertina rappresentava l’immagine nello specchio in cui finalmente riusciva a guardarsi. Rimandò indietro il magone e quella lacrima che avrebbe voluto uscire.

­ – Direi di sì. Ora sono pronto. –

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Lo schema, il mio racconto di Natale

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L’uomo era appena sbarcato in aeroporto. Recuperato il bagaglio salì sul primo taxi e chiese di essere accompagnato in città. Pagò la corsa, uscì dall’auto e si incamminò sul lungomare. Era la sera di Natale e in giro non c’era nessuno. Percepì un sibilo e di colpo un ragazzino con i capelli biondi gli si parò davanti, fissandolo senza dire una parola. Il suo cuore accelerò. Aveva già visto quello sguardo. Lo vide allontanarsi e dileguarsi in un vicolo oscuro, mentre sentiva dei cani abbaiare in lontananza. Tre mesi prima aveva ricevuto una lettera che lo aveva spinto a fare delle ricerche che lo avevano portato sino alla Biblioteca Nazionale di Helsinky per capire da dove provenisse il suo cognome. L’origine del suo albero genealogico conduceva a una antica città: Myra, in Turchia. L’uomo fissò la facciata della Basilica e si avvicinò al portone. Pensò al significato del suo cognome: il compleanno del Santo. “Signor Sinterklass” disse una voce alle sue spalle. Si voltò e vide un uomo incappucciato. “Chi sei?” rispose. “Non è importante chi sono, ma cosa sto per fare”. In quell’istante Sinterklass vide un bagliore alle spalle dell’uomo incappucciato. I cani sembravano abbaiare sempre più vicino. “Babbo Natale non esiste” tuonò Sinterklass. “Non più” disse l’uomo incappucciato che sfoderò il coltello. Sinterklass sentì il freddo della lama sfiorargli la pelle del petto e in quello stesso istante sentì un frastuono provenire dal vicolo. Un oggetto oscuro trascinato dai cani si abbattè sull’uomo incappucciato che cadde rovinosamente a terra. Un ragazzino biondo porse le redini dei cani che spingevano la slitta. “Sei l’erede” gli disse l’elfo. “Stanotte hai un compito importante” proseguì. In quel momento Sinterklass ripensò alle sue origini, al suo lontano parente le cui reliquie giacevano nella Basilica di San Nicola di Bari. Era lui Babbo Natale, o Santa Claus, il vescovo cristiano che a Myra portava i doni ai bambini poveri con una slitta trainata da cani.

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