Io non dimentico

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Io lí, non c’ero.
Sono stati gli uomini e le donne ad aver vissuto quell’inferno ad avercelo raccontato. I libri.
Ed é proprio per questo che sento di avere un compito, quello di non dimenticare e di tramandare tale memoria. E userò la mia voce e le mie parole ogni volta che potrò per ricordare e perché non accada più. E con la consapevolezza che viviamo in una realtà altrettanto difficile. Ora che la discriminazione non é poi così lontana.
Io lí, non c’ero. Ma non dimentico.

Avevamo

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Avevamo bisogno di raccontare. Lo facevamo in ogni occasione, su un tema, sui muri, sulle panchine, sui vetri appannati. Le parole diventavano stanze. Le stanze, parole. Ogni viaggio poteva avere diverse chiavi di lettura. Vennero poi momenti meno chiari e quella necessità si offuscò. Divenne discreta. Un giorno mi accorsi di sentirmi solo. E di non sapere più come dirlo. “A che serve scrivere?”, dicevano. E mi convincevo avessero ragione loro. Sempre di più. Era infantile, stupido. Inutile.
Lo ricordo ancora come fosse ieri.
Stavo camminando su una spiaggia di inverno. Era fredda e deserta. Ed era rimasto uno spicchio di luna nel cielo che diventava chiaro.
Non uno sfizio, un vezzo, un alibi a metà strada tra il tempo e lo spazio. Una colpa. Era una necessità, un bisogno. Quello di raccontare.

Considerazioni

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Mi é capitato, e mi capita ancora, di seguire il cammino di artisti che a un certo punto iniziano a sentirsi un palmo superiore al resto, snobbano chi in loro ci ha creduto e volano verso qualcosa che poi, alla fine, non arriva quasi mai. Il successo. Li vedi sfiorire, anche quando aggiungono un trucco pesante per nascondere la delusione e l’amarezza che, comunque, si legge negli occhi. Non credo negli “artisti”, ma in chi ha una sola priorità: quella di raccontare se stesso, nel bene e nel male.

La fine dell’anno

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La fine dell’anno è un periodo strano per quelli come me, si fanno bilanci, si valutano le cose fatte e non fatte. Quest’anno è stato strano, sono accadute cose molto belle e altre meno belle, posso dire che si è trattato di un anno di “investimento”. Alcuni progetti sono terminati, altri appena iniziati, altri ancora sono rinati quando sembravano finiti. Sicuramente c’è ancora molto da lavorare. Come sempre ringrazio tutti quelli che mi seguono e che hanno fiducia in me, anche quando ci sono momenti meno luminosi. Non sempre i riflettori possono essere accesi, qualche volta bisogna lasciarli spenti. E riflettere. Capire cosa è importante davvero. Il 2015 per me è stato questo. Non sono mancati i momenti importanti ed emozionanti. Non è mancata la passione, nonostante il tempo che passa e le delusioni che inevitabilmente si presentano. Si riparte proprio dalla passione, dalla voglia di raccontare e di raccontarmi.

Il viaggio

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Alle canzoni affidavo una parte di me. I miei sogni, le emozioni. Le speranze. Poi il tempo fece il suo corso e quel rapporto cambiò. La canzoni smisero di parlarmi. Non é come tutti pensano, come un flusso che va in un’unica direzione. Un fiume in piena. É più un mare, condizionato dalle correnti, dal vento. Dalla luna. Certo non da noi, che siamo barchette di carta. Scrivere é cercare di non affondare, cercare la corrente giusta. E, come spesso accade, si può sbarcare in un porto lontano, sconosciuto, talvolta ostile. O questo é almeno ciò che appare. Spesso sembra che quella parte di me, quei sogni e quelle speranze siano svanite, che si trovino altrove. Magari nella faccia oscura della luna piena. E spesso é proprio così. Si nascondono, si riposano, e chissà, magari cercano se stesse. Così un giorno, semplicemente, quelle canzoni si allontanarono. Restai ad attenderle, un’ora, un mese, un anno. Provai a cercarle nelle altre canzoni, senza trovarle. E mi resi conto che alcune emozioni sono fatte per andar via. E che aspettarle ancora sarebbe stato del tutto inutile. Restarono le ferite, i ricordi e qualche spicciolo di ingenuità. Spesi tutto in vino e caffè. E quando tutto sembrava finito sentii un suono, la cameriera del bar aveva inavvertitamente sbattuto contro un vecchio pianoforte impolverato. Un’unica nota così sola e scordata, ma capace di raccontare un mondo intero di sogni, emozioni e sí, anche quella parte di me, nascosta da qualche parte, riuscì a sentirla. Così uscii dal bar lasciandomi alle spalle il chiasso e tornai a cercarla.

Considerazioni a margine

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Credo che un bravo editore debba dare un valore aggiunto al libro che sceglie di pubblicare, credere nel proprio prodotto e certo non metterlo sullo stesso piano di cose che con la letteratura non c’entrano niente. Credo che debba avere l’umiltà di riconoscere i propri limiti. Studiare. Reinventarsi. Non basarsi sulla logica elementare che un autore emergente debba “vendere” ai suoi amici e quando questi sono finiti, ricominciare con un altro libro. Sicuramente chi supporta un autore emergente é fondamentale, ma solo per iniziare a camminare, non per foraggiare improbabili meccanismi perversi. C’è una bella differenza tra marketing e mercato del pesce. Credo che un editore debba essere serio e capace e che sia perfettamente inutile mettersi in vetrina come una scultura del Bernini se poi si é soltanto un vaso cinese. E, per finire, credo che il lettore sia sacro e che come tale vada trattato, senza violentarlo o costringerlo a comprare prodotti che non vuole. La serietà non ha bisogno di molte parole.

Essenza

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Stanotte non riesco a dormire. Penso, ripenso. Ma guardarmi dentro a volte non serve a niente. Perché le parole escano, bisogna farsi del male. É sempre così. Le parole sono come il sangue. La vita stessa. Si nutrono di emozioni, come ossigeno. Un gioco d’ombre. Luce, essenza. Con gli occhi, e senza.

Oltre, gli occhi

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Parole, marchi a caldo di una sonorità segreta. Parlava, mentre quella strana brezza sporca le infreddoliva le guance. Tutto intorno esplodevano colori, suoni, intrecci di racconti sparsi per terra. Ma lei, parlava. E tra il rumore metallico dell’ultimo treno, delle frenate delle automobili, dei discorsi inutili, nessuno di accorse.
Che le si erano spenti gli occhi.

Scemo chi legge

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Mi hanno colpito le parole di Umberto Eco, il quale ha dichiarato: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli”. Poi ho letto i vari commenti sprezzanti sul ritorno sulla Terra di Samantha Cristoforetti e ho capito che tutti i torti non li ha. Premesso che ho letto tardivamente “Il nome della Rosa” e l’ho trovato lento, pedante, e sovraccarico di informazioni inutili, con una scrittura lontana anni luce dai canoni della letteratura moderna, mi viene da pensare che ogni epoca abbia il suo codice di comunicazione. Detto questo, i social traboccano di parole a vanvera scritte da persone che si auto-definiscono poeti, scrittori, commentatori e che per tale diritto acquisito possano scrivere qualsiasi cosa. Qualcuno potrebbe obiettare, “hai appena scritto delle critiche su uno dei romanzi più importanti del mondo. Chi sei per farlo?”. La risposta é semplice. Sono uno che legge. E che facendo questo ha maturato la sensibilità di poter esprimere un pensiero. Analizzerei però quanto detto, dire che lo stile di Eco é spesso anacronistico, non vuol dire negare che sia un gran romanzo. “Il nome della rosa” rappresenta un’epoca, ed é stato lo scrittore stesso a scegliere di utilizzare una scrittura che richiamasse il modo di raccontare di quel momento storico. Da questo punto di vista il romanzo in questione é magnifico. Il tema é chi dice cosa. E soprattutto sulla base di che. Per esprimere un pensiero bisogna pensare. Ognuno lo fa a modo proprio e in base alla propria cultura ed esperienza. I social hanno aperto la strada a tante persone che non hanno di fatto le basi per commentare. Come se una persona che ha mai letto un solo libro si mettesse a scrivere recensioni. Semplicemente assurdo, almeno da un punto di vista tecnico. Ma facciamo un passo indietro. Chi critica la Cristoforetti sui social? Perché? Una donna italiana che sceglie di diventare astronauta e che coltiva il suo sogno impegnandosi, studiando e, alla fine, corona una parte del suo sogno (perché credo che per lei sia solo l’inizio) dovrebbe essere un esempio. É scomoda. Scatta foto dallo spazio e le propone sorridente. Spiega come si mangia nello spazio. É felice di ciò che sta facendo. Alla gente questo non piace. É un’eccellenza italiana. No, non va. Bisogna deriderla. Dire che c’è sotto qualcosa. Qualcuno. Che anche lei é come noi. E bisogna dirlo. Che palle questa, che avrà fatto mai per essere celebrata così tanto? Quanti pendolari tornano a casa e nessuno li acclama. Ma quello che però va chiarito é cosa sono i social. Non sono organi di stampa. Sono pagine. Poco più di un blog, in cui un individuo può esprimere e condividere un pensiero o un sentimento. Frustrazione? Anche. Perché no. Forse, chi pensa che la propria pagina, o meglio, il proprio account, sia tanto autorevole da potersi autolegittimare come poeta, scrittore o giornalista, non ha capito di cosa stiamo parlando. Così come credo non lo abbia capito nemmeno Eco. I social sono un mezzo di comunicazione, così come tanti. Non credo che Adn-Kronos tenga conto di un mio pensiero nella sua comunicazione, questo non mi vieta di esprimerlo. É democrazia. Ma sta a noi imparare a filtrare le notizie, le informazioni, a capire chi dice cosa. É difficile. Ma questa nuova epoca lo impone. Altrimenti nessuno di noi potrà distinguere un romanzo da un altro, un poeta dall’altro. Altrimenti rischiamo di mischiare il poetucolo di periferia che scrive senza metrica né rima da un Dante o un Leopardi. La cultura e la sensibilità ci servono a questo. Chi parla al bar prima lo faceva nella locanda, ora sui social. Quindi Eco, contestualizziamo, altrimenti stai dando dello scemo anche a chi legge.