L’ultima volta

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Hanno portato via tutto

le scorte per una vita intera

il lutto, e delusa è la stella

e la sera? Raccoglie imbrogli

Ne cogli il profumo?

C’è umidità stanotte

e quante domande;

Parlavo alla luna

Dimmi tu il perchè.

Senza lode ne infamia

Incantarsi, incontrarsi

Scontrarsi per capirsi

hanno portato via tutto

dai banchi dell’essere

Sta per piovere ancora

Sta per piovere

L’ultima volta

Recensione “Ciò che non posso avere” di Barbara Gobbi

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Il disco “Ciò che non posso avere” di Barbara Gobbi è ricco di spunti interessanti. I pezzi suonano come un rock melodico, aggressivo e suadente. Sin dalla prima canzone “Abban(dono)” si sente una decisione in uno stile dolcemente duro. In “Di passi neanche l’ombra” emerge una forte malinconia che si presta a un’accusa amaramente urlata.”Certezze e cemento” è una ballata con un ritmo intenso, un testo riflessivo e coinvolgente, mentre “Afa circonda” esprime un’ottima musicalità ben miscelata a un testo introspettivo e particolare. Un’istantanea sul ruolo di una donna di successo è ben dipinta in “Donna manager”, anche in questo caso su sonorità rock. “Intrigante” è il titolo che descrive la metrica di questa canzone nel suono delle chitarre e nel ritmo che esplode con un’amarezza a tratti contorta ma sempre forte e decisa. Come un inno contro l’ipocrisia si erge “Le tue maschere” sempre semplice nella tua complessità e senza cadere mai nel banale. “Il mio bell’attimo” possiede una bella melodia che si sposa con un ritornello accattivante. E’ acqua che si adegua “In sostanza”, potente e scatenata come l’onda travolgente. In “La lieta notizia” si sente una piccola influenza di Carmen Consoli (ma si sente anche in altri pezzi) in un’interpretazione anche in questo caso duramente insolente. Questo disco rappresenta un buon lavoro, testi semplici e melodie attraenti sono gli ingredienti della ricetta musicale di Barbara Gobbi,  sperando di poter sentire ancora parlare di lei in un prossimo futuro. Un bel disco.

Punizione divina

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Signor giudice, voglio raccontarle la verità. Sono un infermiere e già dal primo prelievo di sangue ho capito quanto godessi nel farlo. Mi eccitavano quei vasetti pieni di vita, solo a guardarli. Ma gl’incubi sono iniziati quando ho letto quel libro. La notte mi svegliavo sudato, urlavo. Vedevo fiumi di sangue che scorrevano di notte, e di giorno vedevo rosso ovunque. Giudice, è pericoloso quel libro! È lì che ho capito quale sarebbe stata la mia missione. Una ragazza conosciuta in un bar fu la prima a essere immolata per il mio sublime piano. Una volta a casa deposi quel corpo caldo nella vasca. Giudice, non immagina come un corpo deperisca, istante dopo istante, fino a diventare bluaceo. Dopo un’ora era smunta. Sa quanto sangue c’è in un essere umano? L’otto per cento del peso corporeo. Me ne serviva tanto. Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch’è, come non fosse, agogna?  E’ vero, non avete mai trovato i corpi. Le dirò dove sono: in una fabbrica abbandonata, nell’ex sala macchine, ci sono le botole dei pozzi che portavano acqua alle vasche; sono lì, potete controllare. La cella frigorifera dell’ex sala mensa divenne il mio deposito. Volevo creare il mio gioiello, e lavorai notte e giorno. Non sa quanto sia stato emozionante vederlo all’opera. Scelsi la mia prima vittima nel quartiere più degradato della città, frequentato solo da balordi e violenti. Dopo qualche ora quel bastardo si risvegliò appeso per le braccia a un cavo d’acciaio. Calai lentamente il suo corpo con l’argano, lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida.

Il suo urlo riecheggiava nella sala mentre il bruciore lo assaliva, prima ai piedi, poi le cosce, fino al pube. Non riuscivo a trattenere la mia eccitazione quando il fiume di sangue fumante lo inghiottì. La divina giustizia di qua punge, quell’Attila che fu flagello in terra e Pirro e Sesto; e in etterno munge. Conosce l’Inferno, Giudice?

Recensione “Fuori dal Comune” di Davide Geddo

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L’album di Davide Geddo “Fuori dal comune” si apre con una canzone da brividi che si chiama “Genova”, un’autentica perla di musica e poesia che sa far sognare.”Ti Voglio” è pezzo orecchiabile, molto radiofonico, e con un testo frizzante.”In ogni angolo della notte” ha un retrogusto jazz con una vocalità riflessiva e intensa, mentre  “Innocenza” è una canzone che ha un qualcosa di geniale che seppur nella sua semplicità colpisce per la sua profondità. Non mancano le ballate sognanti come “Il limite” e “1000 cose” che accompagnano l’ascoltatore verso un mondo di poesia e intensità. L’amara e coinvolgente “Marylin” sembra quasi essere divertente nel suo incedere tagliente. “Lo sguardo del cantautore”, con il featuring dell’ottimo Zibba, è dissacrante e ironica e che spezza e arricchisce il contenuto di questo album. “Meg” è dinamica, sarcastica e con un testo ricco di poesia intrecciata a una realtà che sa di fumo di un pub di periferia. “Oltre” e “Cuore” sono due canzoni d’amore o forse sono qualcosa di più. Quel che lasciano è un sapore, quasi un profumo, fragrante che completa degnamente un album ricco di poesia, musica, intensità e che quindi racchiude un senso ancora più sublime in un finale emozionante. Un bell’album. 

 

Recensione “Lo Specchio” di Francesca Romana

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L’album “Lo specchio” di Francesca Romana contiene pezzi pop melodici, alcuni dei quali particolarmente raffinati. Lo si denota sin dalla prima canzone “Il tuo nome e il veleno” in cui alcuni tratti del testo spiccano per originalità mentre altri si rifanno a una cultura melodica italiana più classica. “Giovanna la pazza” è particolarmente orecchiabile e in alcuni tratti avrebbe bisogno di maggior incisività per renderlo di qualità ancora superiore. “Canzone blu” è anch’essa molto appetibile all’orecchio. “Io e Biancaneve” è originale nella sua composizione e nella fusione tra un testo complesso all’apparenza e la melodia molto ariosa. “L’estranea” è una ballata lenta con una vocazione intimista e sussurrata, mentre “Il poeta”, pur essendo anch’essa una ballata, possiede un’architettura più raffinata del testo e dell’interpretazione. “Storia clandestina” sembra una favola raccontata nelle sere d’estate quando il sole è tramontato da poco. Ne “Il lago” si sente l’eco dell’influenza di Carmen Consoli con una struggente passionalità regalata all’ascoltatore. “Mad Maria” invece è particolare e affronta una tematica difficile e ricca di ostacoli, forse spingendosi ancora oltre colpirebbe in maniera più forte e decisa. Francesca Romana ha delle indubbie qualità canore e una grande capacità di intrecciare le parole per creare atmosfere avvolgenti. Con ancora più spregiudicatezza nei testi potrebbe creare testi in grado di fare ancor di più la differenza. Quello che si può dire dell’album “Lo Specchio” è che contiene molte canzoni interessanti, alcune molto orecchiabili, altre con un tono più poetico e altre con una struttura melodia e voce intrigante e che lo rende attraente. C’è molta sostanza e tecnica in questo disco e speriamo di riascoltare Francesca con altre canzoni.

Questa maledetta nostalgia

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Come spieghi questa maledetta nostalgia? Forse siamo animali alla ricerca di un istinto, di un’anima, anche quando siamo sicure di possederne una. E quando nella notte ci svegliamo sudati e impauriti ci soffermiamo a pensare che è dura restare in piedi e spesso lo è ancora di più quando sei in attesa che il vento cambi. Mi chiedo spesso come fanno le persone che si adeguano a tutto, che sanno, o che almeno dicono di sapere come funziona. C’è gente pronta a commentare, a giudicare, a dire la propria, fino a ferire con la consapevolezza di una saggezza maturata nel tempo. Adeguarsi a sopravvivere è un’arte. Dicono. Io credo nei sogni, questa è la verità. Credo che si debba combattere finchè c’è respiro, aria, voglia di andare avanti, anche a costo di rischiare figuracce, di essere fischiati, giudicato. C’è una notte ancora da superare. L’ennesima. C’è ancora tanta voglia di urlare, anche contro queste serpi pronte ad avvelenarti.

 

 

Le mani legate

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Le mani legate

All’estremo rimpianto

Insane e violate

Le note del tormento

E il viale delle streghe

Lacerate e corrotte

Nelle pieghe dell’inferno

Nel freddo di ogni notte

Le gocce sanguinanti

Il sale nelle lacrime sole

Come antidoti e unguenti

E salvezza le parole

Il calice d’incanto

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il calice pieno di incanto

brindavi alla notte morente

degli occhi non ti fai vanto

urlando alla luna crescente

mi invadi l’anima

col fare inquieto di chi sogna

mi chiudi gli occhi

con baci di cui ho bisogno

e poi torni a volare

con le ali libere ancora

e mi vuoi parlare

di quel che è stato fin’ora

nell’attesa del mare

colgo il senso dei discorsi

mi fermo poi a pensare

ai miei tempi trascorsi

tra nubi di fumo bianco

e perle di vino invecchiato

quando mi sentivo stanco

di non aver realizzato

che il calice è lì 

pronto per essere bevuto 

come d’incanto