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Recensione del disco “Non sono mai stato qui” e intervista all’autore Davide Geddo

Davide Geddo è un cantautore che sa toccare le corde giuste, l’avevo capito sin da quando ho sentito per la prima volta “Genova”, ma in questo disco si è superato. E con la complicità di un amore finito ha reso ogni nota un fiume in piena e allo stesso tempo un rivolo leggero in grado di scavarsi una strada in una roccia. La prima canzone dell’album “Non sono mai stato qui” è “Venezia”, struggente, con parole appassionate e forti dedicate a una donna ancora amata, che è fuggita via, un giorno come un altro. Descrive un cambiamento, una trasformazione interiore che, tuttavia, non riesce a far dimenticare. La durezza d’un amore che resta lì, a osservare. Come quando ci si guarda allo specchio e ci si scopre diversi, più tristi forse, ma più forti. “Dicono che io” è una canzone introspettiva, che analizza, studia e alla fine parla al cuore della donna che ti ha infranto il cuore, a tratti con durezza, a tratto con delicatezza. Un pezzo che emoziona, racconta, guarda l’amore da un nuovo punto di vista. “Angela e il cinema” è una ballata dall’animo jazz, blues, amara e dolce, con suoni che si intrecciano a parole che rincorrono in un racconto passionale con sfumature carnali. Le contaminazioni della musica popolare si uniscono ai suoni moderni e passionali di chitarra, violino e batteria, il tutto tra rustico e raffinato.  “Tristano” è un valzer popolare, tra la vita che ubriaca fino all’alba. Parole brille e sporche di vino e canti a squarciagola. Una sagra di musica e colori, suoni e canti popolari su melodie avvolgenti. “Stare bene” è una ballata, una passeggiata alla ricerca del senso più profondo di se stessi. Un modo colorato per ritrovare la strada migliore. “Il post amore” è un pezzo travolgente, divertente ed energetico. Un duetto fantastico con la bravissima Chiara Ragnini, che ricama e costruisce trame melodiche funky con la sua voce pura, dolce ed elegante. Una canzone che riesce a dare coraggio. E non è poco. “Equilibrio” è una ballata intima e coinvolgente, emoziona e incanta, con intense parole sussurrate. Soffici come neve. “Dall’amore (interventi di modifica alla viabilità interiore)”, è un pezzo creato come una metafora a suon di musica appassionata e indiavolata. Racconta divagazioni sull’amore, sulla vita, su se stessi, fino all’anima. “La campionessa mondiale di sollevamento pesi” è un dolce richiamo, come persi tra ricordi, lontani, ma che vivono ancora dentro, fanno ombra ai sogni e allo stesso tempo compagnia. In “Piccolina” Geddo sembra richiamare Fred Buscaglione, ravvivandone il sound e rendendolo ancora più dinamico, attuale. Moderno. “Sole rotto” è amara e sognante. E’ un pensiero soffuso, soffice e dolce, che oltrepassa il cielo, la distanza e l’amore svanito.

“Un pugno rotto è una canzone” è un piccolo gioiello. E’ una canzone fragile, delicata e intensa. Non si riesce a smettere di ascoltarla, soprattutto quando ascoltandola ci si sente proprio così, confusi, disarmati. Vittime di quel suono più oscuro. “Nancy” è un pezzo tagliente, ricco di ricordi, passioni che la vita costringe a celare in fondo all’anima. Svela le immagini raccolte come su un album da non riaprire. Un album che si vorrebbe bruciare, senza averne il coraggio. di farlo. “L’astronave di Provincia” è malinconia pura, un amore delicato, che entra senza far rumore. E’ un ricordo lieve, abbandonato tra le pieghe del letto. Un bacio che non si potrà dimenticare, mai.

L’album si conclude la canzone che da il titolo all’album. “Non sono mai stato qui” ha un suono che ipnotizza, che lascia un gusto strano in bocca, che fa sentire come soli di fronti al mare in tempesta, col freddo che entra nelle ossa. Poche luci intorno. E dentro una consapevolezza, ciò che amavi non c’è più. Una lucida solitudine che riesce quasi a far compagnia, diventa parte di te. Ti completa. E mentre il vento continua a soffiare, decidere di tornare a casa. E, forse,di dimenticare.

Un disco da ascoltare e riascoltare, che accompagna, emoziona, sussurra grida. Ubriaca. Un sapore a volte amaro, ma che rimane lì, fa riflettere, sognare e ricordare. I ricordi sono la trama portante dell’intero disco. Ricordi che nascondo lacrime per farsi forza. Per rialzarsi, e non smettere mai di sorridere.

Abbiamo posto alcune domande a Davide:

Le canzoni del nuovo disco sono ispirate a luoghi immaginari, cosa sono per te questi “ non luoghi”?

La musica è una potente macchina del tempo e dello spazio. Consente di rivivere sensazioni perdute o immaginare storie che non si sono potute realizzare. In essa il tempo vola e altera le sue leggi. La canzone non ha la bellezza tangibile di un quadro o di una scultura ma, pur essendo un’arte minore, è l’unico varco temporale che ci permette con la stessa facilità di essere profondamente noi stessi o di immaginarci nei panni di persone completamente diverse. In “Non sono mai stato qui” è mia intenzione sottolineare l’ambigua essenza della forma “canzone” dichiarandone l’assoluta libertà e indipendenza dalla presenza e dall’esperienza che condiziona il quotidiano.

Nell’album c’è una forte componente emotiva e sentimentale, quanto c’è di autobiografico nei pezzi?

Non credo alla musica come esibizione e divismo; credo alla musica come linguaggio, come espressione e come modo di toccarsi. Credo che non si tratti di essere autobiografico in ciò che racconti ma di esserlo in come racconti. Non sono quasi mai al centro delle mie canzoni; mi piace esserne collaterale, magari attore non protagonista. Mi piace essere nei dettagli.

Cosa lega le canzoni Genova e Venezia?

Sono due concetti opposti che finiscono per essere speculari. Venezia è la storia di tutto ciò che non è accaduto tra due persone che si ritrovano dopo un qualcosa che non c’è stato; la canzone inizia con un elenco di situazioni che non si sono realizzate e narra la storia di un viaggio che non si è compiuto. Genova, al contrario, rappresenta un modo di sentire e il forte senso di riscatto che trovo nella musica. In questa logica la bellezza misteriosa e contorta di Genova e quella sognante e unica di Venezia finiscono per specchiarsi come una realtà e il suo sogno.

Le tue canzoni sono come delle polaroid immagini di momenti, quasi scene di un film. Quale di queste fotografie porteresti sempre con te?

La dimensione cinematografica è quella più adatta alle mie canzoni; mi piace accompagnare visivamente dentro una storia, dare un carattere ai personaggi, mi piace romanzare e abbozzare paesaggi. Mi piace essere il regista delle canzoni. In altri casi, e mi viene in mente “stare bene”, il riferimento alla polaroid che tu hai colto mi pare appropriata. Ho i miei tempi nello scrivere; a volte non sono per niente brevi. Ma una volta che sono finiti i brani fanno parte di me e sono sempre con e dentro di me. Non ho scarti; solo idee su cui ritornare.

Quanto conta il mare nelle tue canzoni?

Noi, fortunati, che viviamo il mare abbiamo un doppio orizzonte che si fonde in lontananza. Non si può prescindere da questo mistero che induce umiltà, rispetto e riflessività. Inoltre ho un naturale stupore per tutti quegli elementi naturali che sanno “incantare” lo sguardo come anche il fuoco o le nuvole.

Quali sono gli artisti che ti hanno aiutato a esprimere la tua musicalità?

Per me suonare è quasi l’atto finale e decisivo ma non potrei sentirmi musicista senza essere ascoltatore e appassionato di musica. Lo star system identifica la musica come un mezzo di valorizzazione del talento o, purtroppo spesso, anche solo di contorno ad esso. Ciò ha professionalizzato la canzone ma ha tolto spontaneità, ricerca e spirito di appartenenza; la musica ha perso molto appeal rispetto, per esempio, al computer e alla tv; mondi di cui è diventata componente, perdendo in autonomia e forza. In questo senso collaborare è per me parte stessa dell’essere autore di canzoni. Ritengo di sentirmi dalla stessa parte di chi rivendica per la musica un’autorità e un’autorevolezza che stimoli l’ascolto, aspetto per me sempre prevalente. Da questa parte della barricata mi sento in sintonia con artisti di cui apprezzo l’approccio con la musica e le persone come Zibba, Sergio Pennavaria, Zazza, Michele Savino o Chiara Ragnini, ma la lista per fortuna è lunga e l’unione fa la forza. Di fatto infine è stato molto importante l’incontro con Rossano Villa di Hilary Studio che mi dato sicurezza e confidenza con lo studio di registrazione.

Alcuni dei tuoi pezzi sono ritmati, quasi indiavolati; altri sono più intimi e sussurrati. Quale delle due dimensioni senti più tua?

Vivo la musica come una casa. Ogni tanto sento il bisogno di fare festa, invitare tutti gli amici e passare la serata in allegria; altre volte ho bisogno di rinchiudermi nella mia stanza e parlare un po’ con me stesso. Sento mie entrambe le dimensioni e mi sento a mio agio nello sviluppare entrambe le dinamiche. Non credo che sia il binomio gioia- tristezza a creare un brano che sia degno di essere ascoltato ma so che servono spirito di osservazione, lucidità e feroce autocritica.

Come ti vedi tra dieci anni?

Un po’ cambiato.

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