Dove il vento può cambiare

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Racconti

Il cambiamento di direzione del vento può variare l’intera strategia di gara. Alberto ne era consapevole. Ma quel giorno era partito con il piede sbagliato. Claudia lo aveva lasciato proprio poche ore prima della finale di vela. Aveva retto fino alla penultima boa, quando si avvicinò alla famigerata scogliera. Lì il fondale era meno profondo e in alcuni punti la chiglia poteva toccare gli scogli sul fondale. Il vento cambiò proprio in quell’istante. L’attimo in cui non fu pronto a virare. L’attimo in cui venne sbalzato fuori dall’imbarcazione e colpì uno scoglio affiorante. L’attimo in cui rimase sulla sedia a rotelle.
“Ci vorrà tempo, ma potrebbe tornare a camminare”, gli aveva detto il medico. E l’unica cosa che aveva in mente era che non sarebbe più riuscito a veleggiare. Quella era la sua vita. Rinsavì, proprio nel momento in cui si rese conto di aver raggiunto la clinica dove si sarebbe sottoposto a una lunga riabilitazione. Una possibilità su un milione di tornare a camminare. Era anche la probabilità di un essere umano di vincere la grande gara. E lui ne aveva vinte già due.
“Lei è Alberto?”, si voltò in direzione di chi lo aveva chiamato. “Sono io”, replicò, rispondendo allo sguardo della giovane. “Sono la sua fisioterapista e l’aiuterò a rialzarsi in piedi”.

Immagine generata con IA Gemini

Il giocattolo

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Racconti

Luigi camminava solitario nel parchetto, quando il suo sguardo si posò su qualcosa di colorato in terra. Si avvicinò e vide che si trattava di due oggetti. Li osservò con più attenzione. Erano le due parti di un robot, un giocattolo che aveva tanto desiderato, ma che i suoi genitori non gli avevano mai comprato. Prese i due oggetti e li nascose nel suo zainetto. Una volta a casa, ignorò le urla dei suoi genitori che, come ogni giorno, si lanciavano insulti. Prese dello scotch colorato e iniziò un meticoloso lavoro per riunirli; poi, guardò il suo lavoro con gli occhi lucidi e nascose il prezioso oggetto nello zaino.
Il giorno seguente percorse il corridoio della scuola; quando entrò in classe si accorse che i suoi compagni erano raggruppati attorno al suo banco. Si avvicinò e dal gruppo comparve il volto di Virgilio, che aveva in mano il suo robot. “E questo? Me lo hai rubato!” “No, io…” “Ladro. E pezzente.” Un coro di voci si alzò dai suoi compagni. “Ladro, ladro, ladro”, mentre Virgilio scaraventava per terra il robot, separando nuovamente le sue due parti. Si morse il labbro e scappò fuori dalla classe, uscì nel cortile e si nascose dietro un albero. Trattenne le lacrime, impedendo loro di scivolare lungo le guance. Si promise di non piangere più.
Ripensò alle urla dei suoi genitori, a tutte le volte che i suoi compagni lo avevano preso in giro perché usava vestiti usurati e non aveva mai nulla di tutto quello che andava di moda. A tutte le volte che si era guardato allo specchio e si era odiato. Da quanto tempo si sentiva lui, il gioco rotto?
Rientrando a scuola si rese conto di essere rimasto fuori parecchio. La preside lo richiamò verso il suo ufficio, fuori dal quale lo stava attendendo sua madre, immaginò richiamata d’urgenza. Riusciva a scorgere il suo sguardo cupo e a tratti minaccioso. E sapeva benissimo come sarebbe andata. Sarebbe stata colpa sua, come sempre. Lo avrebbero accusato di furto. E probabilmente avevano ragione: per una volta, aveva provato a rubare un frammento di normalità, di serenità. Per un momento aveva voluto sentirsi come gli altri, nonostante la consapevolezza che non sarebbe mai stato così.
Perché quando un gioco è rotto, è rotto e basta.

Immagine creata con IA Gemini

La quinta guerra – Ep2

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, #LMDS, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio, Narrativa, Pensieri, Racconti

Il volto della sua collega continuava a cambiare mentre le teneva la mano perché non cadesse nel vuoto. Non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe avuto la forza di farlo. Stava realizzando che non era stato sufficiente annientare la sala server del sistema, ma che questo si era insediato ben più in profondità. Nulla era ciò che sembrava, perché nessun individuo poteva garantire la sua identità. Il volto era stato solo un mezzo per riallineare le menti. Solo alcuni individui erano immuni all’influenza del sistema. Lui e sua collega, la detective Silvye Brams, ne erano l’esempio. Ma non era più sicuro che fosse lei. Sentiva che la sua mente stava per essere contaminata.
“Tirami su!” gridò lei.
“Non riesco,” rispose lui con un filo di voce, mentre tutto attorno si sentivano strisciare i soldati e in aria il volteggiare degli elicotteri.
Lucine rosse laser erano puntate su di loro.
Silvye era riuscita a scovare uno stralcio del codice di calcolo del sistema; fuggire dal server in fiamme non era servito per far perdere quelle tracce. Quel frammento di codice poteva rappresentare un problema e per questo dovevano resettarlo prima di essere compreso. Silvye era un detective con professionalità, dedizione ed esperienza. Aveva fatto delle ricerche su dei vecchi libri in archivio e aveva scovato una rete di programmatori che aveva modificato i codici storici per crearne una loro versione, con una precisa firma. Aveva capito di dover parlare con uno di loro. Per questo avevano raggiunto un vecchio programmatore e lo avevano nascosto in un posto sicuro. Dovevano raggiungerlo per continuare a ottenere informazioni, solo che erano stati tracciati e inseguiti. Ora non avevano possibilità per sfuggire. All’improvviso le forze gli mancarono, la mano cedette e Sylvie cadde nel vuoto. Sentì un forte dolore al petto e cadde anche lui nel vuoto.
“Scusami,” mormorò, forse a se stesso, mentre il buio si impadronì di lui.

Immagine generata co IA Gemini

Il fenicottero

Pubblicato il Pubblicato in Poesie, Racconti

Cercava di correre il più veloce possibile, ignorando il dolore ai muscoli e i battiti del cuore che viaggiavano troppo veloce. Girò all’angolo, sperando di far perdere le sue tracce, ma il suo inseguitore era sempre lì, a ridosso. Entrò in un negozio, per uscire di corsa dal retro e correre in strada, in direzione opposta.
Solo una settimana prima aveva finito le riprese della nuova seria in cui interpretava un exagente alle prese con un complotto mondiale, ora doveva seminare dei seguri armati.
Si nascose tra la folla e imboccó una stradina secondaria, per poi entrare in un portone e uscire dal retro. Corse ancora per raggiungere una via trafficata e nascondersi in mezzi alle persone. Cercò un punto di osservazione sicuro e individuó i suoi inseguitori. Sentí vibrare il telefono nella tasca dei pantaloni. In quel momento decise di muoversi lungo la via.
Lanserie era composta da dieci puntate, la trama aveva inizio con il ritrovamento di un cadavere di una giovane, il cui corpo era stato trovato privo di vestiti, in una zona industriale della provincia torinese.
A colpire il detective, che lui interpretava era stato un tatuaggio. Un fenicottero armato.
Entrò in un portone e cercò un uscita sul retro, ma non la trovò. In quel momento sentí il portone aprirsi e decise di salire le scale.
Il detective aveva chiesto a un agente giovane di cercarlo in rete. Il giovane agente aveva effettuato una ricerca mediante applicazione di intelligenza artificiale. Il tatuaggio aveva portato a dei video di una ragazza nota nel settore per attività legate a una famosa piattaforma di condivisione di servizi hard. La cosa che aveva colpito l’agente è che, per quanto la posizoje del tatuaggio e in generale della corporatura stessa della ragazza combaciassero con quella del cadavere, il volto fosse differente.
Salí all’ultimo piano del palazzo e si guardò intorno. Nessuna via di fuga. Il telefono continuava a squillare. Prese in mano il dispositivo e vide chi stava chiamando. Era la sceneggiatrice della serie.
Rispose.
“Stanno cercando di entrare. Dalla centrale non risponde nessuno!”, sentí dalla voce della donna.
“Stanno cercando anche me. E mi hanno trovato”.
“Che facciamo?”
Alla fine della decima puntata il detective e la sua collega, una giovane investigatrice, tramite le ricerche della divisione informatica avevano trovato un fabbricato da cui partivano diverse connessioni. Con l’ausilio delle forze di assalto erano entrati. Avevano trovato nel capannone una serie di server e computer attivi che riempivano l’intero capannone.
I due uomini uscirono dal vano scala e iniziarono a muoversi nell’area del tetto alla ricerca del protagonista.
Mediante una riverca approfondita delle linee di connessione avevano individuolato un secondo fabbricato, un vecchio albergo trasformato in una casa di appuntamenti in cui delle giovani donne venivano costrette a rapporti sessuali e i cui video venivano veicolati su una piattaforma, previo filtro dell’immagine che trasformava i volti e generata un profilo nuovo che veniva utilizzato per il marketing e per le attività collaterali, vendita on line di immagini e video personalizzati.
Il protagonista era riuscito a scendere lungo un pluviale e a salire su un balcone, sfondando il vetro con un vaso era riuscito a entrare nell’appartamento.
Dal cellulare, rimasto attivo sulla linea aveva sentito dei rumori, colpi di pistola.
Credeva nelle capacità della sua collega, detective di razza. ormai la loro copertura era saltata. Il capannone con i server nob era che una piccola parte dj un sistema più complesso. In quel momento erano in corso gli arresti dei componenti dell’organizzazione. Ma era consapevole che si trattava di una cellula di un sistema molto più ampio e sviluppato.
Scese lungo una seconda scala e si reimmise sul marciapiede affollato e fece perdere le sue tracce.
“Sei ancora li?” disse, riposizionando il cellulare all’orecchio.
“Sono al sicuro. Tu?”
“Anche io.”
“Il nostro lavoro non è finito.”
“Il nostro lavoro è appena iniziato.”

La quinta guerra – Ep01

Pubblicato il Pubblicato in #Labirinto, #LMDS, L'equazione - Il thriller, La Macchina del Silenzio, Narrativa, Pensieri, Racconti

I gruppi reazionari si erano moltiplicati, vivendo nei sotterranei. Metropolitane abbandonate. Ex bunker. I soggetti che non reagivano al potente segnale, riuscivano a costruire e difendere il proprio pensiero e ben presto la ricerca di risposte era diventata la priorità. Gli uomini nel nuovo Impero erano sempre alla ricerca dei covi, che puntualmente finiscano per essere individuati. Bastava un segnale: ricerca di elettricità, di rete, di cibo e nel covo arrivava un gruppo di soldati armati e preparati ad annientare i soggetti reazionali, che non venivano uccisi, ma trasferiti ai centri di rieducazione mentale. Ai soggetti che non rispondevano al segnale veniva installato un amplificatore al di sotto della calotta cranica. Questa operazione spesso culminava con il decesso del soggetto o con il rigetto del dispositivo. Sylvie Brahms si trovava in uno dei pullman che conduceva al centro. Da qualche tempo aveva iniziato a percepire qualcosa attorno a lei, mentre lavorava come barista. C’erano volute settimane perché si ricordasse chi davvero lei fosse e che il suo lavoro, prima della riconversione. Lei era una detective. Vide il cancello aprirsi per lasciare entrare il pullman. Attorno a lei vedeva persone con lo sguardo perso, altre terrorizzato. Il suo unico obiettivo era capire, nell’ordine, come studiare il funzionamento del centro e come uscirne viva.

Immagine creata con IA Gemini

Un altro giorno

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Racconti

C’erano giorni in cui era più difficile,
in cui Laura si sentiva più stanca.
Giorni in cui il passato riusciva ancora a farle male,
come se avesse ancora il potere di drenare le tue energie.
Di dar fuoco ai suoi sogni.
A coprire ogni cosa positiva con la sua patina di melma maleodorante.
Ci erano voluti anni per riuscire a guardarsi allo specchio.
Per accettarsi,
pochi istanti prima che quello stesso specchio le rivomitasse indietro un’immagine sporca.
Fanculo, sussurrò.
Non è giusto.
Aveva voglia di urlare,
ma lo sapeva che un adulto non può farlo.
La locandina sulla parete le raccontava che tutte le date della tournée erano sold out,
ma quella telefonata le aveva tolto ogni euforia per lo spettacolo che l’avrebbe avvolta da lì a poco.
Non c’è abito di scena,
quando il passato torna a bussare.
Non c’è copione,
quando ti mancano le parole.
Sul tavolo, sotto la specchiera, c’era un biglietto di sola andata verso un posto lontano.
Oltre le mura del camerino,
un altro palcoscenico.
Un altro ruolo da recitare.
Un altro nome da indossare.
Un altro giorno per dimenticare.

Quelle scale sconosciute

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Poesie, Racconti

Si era risvegliata nuda in un letto di un tizio conosciuto solo il giorno prima. Il rumore delle ferite sotto pelle non accennava a diminuire. Aveva solo voglia di dimenticare. Di bere e dimenticare. Tra qualche minuto avrebbe dovuto trovare l’ennesima scusa per sgattaiolare fuori da un letto, rivestirsi in fretta senza farsi guardare e tornare alla sua vita di sempre. Continuando poi a chiedersi quale fosse “la vita di sempre”. Quella in cui non puoi fidarti di nessuno? Quella in cui è così facile tradire o essere traditi? Quella in cui il sesso è un giocattolo divertente dal non saperne più fare a meno? E lei all’amore ci aveva sempre creduto, lo aveva difeso così tanto dal negare, negare, negare e ancora negare che ci fossero dei problemi nella sua relazione. Ma poi tutto era diventato sin troppo evidente. Fino a sentirai stupida. Così tutto il castello che aveva nel tempo costruito era crollato. E ora, restava solo lei. Voglio restare sola, si disse, mentre silenziosamente scendeva quelle scale sconosciute. Ma forse sola lo era sempre stata, o meglio, era come si era sempre sentita negli ultimi anni, quando lui usciva per tornare alle ore più strane, tornando sempre con scuse via, via sempre più fantasiose. Chiamò un taxi, una volta realizzato che si trovava dall’altra parte della città e che non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo a lavoro. Mentre il mondo scorreva via dal finestrino dell’auto, giurò a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta. Ma sul gruppo WhatsApp delle amiche era appena comparso un messaggio: “aperto nuovo locale, bella gente da conoscere. Chi viene?”
“Io ci sono”, rispose, senza alcun indugio.

Photo by Unsplash

Non c’era alcuna poesia nei suoi occhi

Pubblicato il Pubblicato in Pensieri, Poesie, Racconti

Non c’erano più foglie sugli alberi, da guardare cadere.
Come comete silenziose, si erano posate per terra.
Ma non c’era alcuna poesia nei suoi occhi, solo un semplice cinismo. Lo stesso che lo metteva di fronte a una certezza: il tempo passa in fretta.
E che, come lui, passano tante altre cose, come i treni, i momenti, le occasioni. I ricordi.
Si rese conto che restare a osservare quelle foglie non sarebbe servito per riportarle sui rami.
E che non voleva attendere la primavera per vederle rinascere.
Raccolse i pensieri. Indossò il pesante cappotto e uscì in strada.
Aveva scelto cosa fare. Avrebbe comprato un nuovo quaderno. E lì, il tempo lo avrebbe fermato.
Perché quelle foglie, le avrebbe disegnate.

Photo by Unsplash

Ed è stupido soffrirne

Pubblicato il Pubblicato in Narrativa, Pensieri, Poesie, Racconti

Il muro scrostato raccontava di un mondo che non c’era più. Così anche vederla andar via non era stato doloroso come aveva immaginato. L’aveva amata, sì, per tanto tempo. Lei, però, non lo aveva mai scelto, lasciandolo sempre lì sulla porta, ad attendere un giorno che non sarebbe arrivato mai. Così, un giorno, aveva iniziato a togliere la muffa dai muri, a raschiare tanto forte le pareti, da rivedere, strato dopo strato, cosa c’era stato prima. Vernici, carte da parati e poi, alla fine, i mattoni. Aveva capito che una casa non sta in piedi grazie ai colori che indossa. E che quello che gli era sembrato amore, altro non era se non semplice carta da parati. In fondo, si disse, non puoi perdere qualcosa che non hai mai avuto. Ed è tanto più stupido soffrirne. A volte perdere qualcosa è l’unico modo per ritrovarsi, con quei mattoni stanchi, inumiditi, ammiffiti, forse, ma ancora capaci di tenere in piedi ogni cosa. Il treno che l’aveva portata via era partito già da tempo, la sala d’aspetto era ormai deserta. Dalla vetrata vide un bar. Sicuramente dopo un buon caffè avrebbe visto tutto per ciò che era davvero. Un nuovo giorno e un nuovo inizio.

Fuori dalle iridi

Pubblicato il Pubblicato in Articoli, Pensieri, Racconti

I lividi sulle braccia non le facevano male quanto l’umiliazione che si era sedimentata dentro.
Le parole le scivolavano addosso, come gocce silenziose.
E cos’è un insulto, se non un ammasso di lettere, si diceva.
Ma lei non ci credeva davvero.
Lei una felicità voleva viverla davvero.
Lei una via di fuga la pretendeva.
Così chiuse il diario, gettò la penna contro il muro con tutta la sua forza.
E ciò che le restava nell’anima, si guardò allo specchio.
I suoi occhi erano neri, anche fuori dalle iridi.
Promise a se stessa che sarebbe stata l’ultima volta.
Che non avrebbe più creduto alle scuse, alle promesse, ai sorrisi del giorno dopo.
Forse, non avrebbe amato mai più.
Probabilmente avrebbe imparato a odiare.
Ma sarebbe stato il giusto prezzo, per la libertà.

Photo: Unsplash