Un po’ ci piace farci male

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Un po’ ci piace farci male,
altrimenti non saremmo umani.
Nelle sfumature meno in luce,
alle notti passate in bianco.
Nelle note discordanti,
ma che rendono il suono brillante.
Nei sogni che facciamo.
E in quelli che non abbiamo il coraggio di fare.
Nei giorni in cui tutto sembra lontano.
Un po’ ci piace farci male,
scriviamo per questo.
Per dipingere luoghi sconosciuti.
Per darci una voce.
In un mondo in cui tutti urlano favole.

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Siamo persone fragili

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Siamo persone fragili. Questa è la verità. Il caos del virus ha fatto emergere il peggio di noi. Quel bisogno ancestrale di timore e diffidenza. Ma siamo anche torrenti che cercando sempre la loro strada, anche quando provano a farli sparire. Quindi, passerà. A volte mi guardo allo specchio. Eh, sì. Mi sento invecchiato. A volte mi manca la forza e la determinazione per rivendicare quello in cui credo. Mi viene voglia di dire “ma chi se ne frega”. Avete ragione voi. Poi c’è una parte di me che non vuole farlo. Che ancora si incazza. E quando risento emergere quella parte quasi mi commuovo, perché quella parte di me é una grande testa di cazzo, ma ha una passione che non si ferma davanti a niente. E so perfettamente che devo quasi tutto a quella parte di me. Così ritorno a guardarmi allo specchio, con più capelli bianchi e qualche ruga in più. Più stanco, forse. Con negli occhi, però, ancora quel fuoco. Perché siamo così, fragili. Siamo torrenti, fiumi che, quando sono in piena, ritrovano la loro strada. Nonostante tutto.

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Accarezzare un filo

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È come un filo,
una musica leggera,
che unisce ogni cosa.
Il tuo coraggio,
la delusione,
l’amarezza.
Quel senso di sconfitta.
Tutto si muove,
silenzioso.
Tra le stanze silenziose.
E le nubi basse,
appese a un cielo stanco.
La verità è un quadro,
i colori, cangianti.
Da qui sembra tutto lontano.
Anche i miei occhi,
riflessi in un mare che non ricordo.
Nell’altra stanza,
il pianoforte.
Avrei voglia di suonare.
O forse no,
preferisco restare qui.
Ad accarezzare un filo.

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Strade che non riconosciamo

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Pochi minuti per scrivere,
perché tutto corre veloce.
Ma il tempo è relativo,
l’estate è tornata qui.
E ci coglie impreparati.
Con i sorrisi nascosti.
Spersi tra le stesse strade,
ma che non riconosciamo.
Con la paura leggera,
di sentirci cambiati.
Negli occhi,
la voglia di ritrovarsi.
Oltre uno specchio,
che non sa mentire.
Pochi minuti per scrivere,
ma le parole restano sospese.
A quei silenzi,
a cui cercano di abituarci.

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I miei silenzi

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Gli anni,
gli errori,
le parole,
sprecate di fronte a una luna distratta,
mi hanno reso più paziente.
Distante, a volte.
Come in un gioco di prospettiva.
Di specchi, forse.
Quando mi vedo deformato,
provo a ricordarmi di me.
Di come ero.
Lo faccio perché i Luna Park non mi hanno mai divertito.
Le luci finte,
La felicità a gettoni.
Resto in silenzio.
L’ironia viaggia solo con l’intelligenza.
Altrimenti, è solo volgarità.
Cosí gli anni,
gli errori,
le parole,
sprecate di fronte a una luna feroce,
mi hanno reso più paziente.
Di me, ho imparato qualcosa.
Che il silenzio è,
per sua natura,
un discorso.

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Diventare grandi

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Lo capirai, che diventare grandi è difficile.
Imparerai che ti giudicheranno per ciò che sei. Ma soprattutto per ciò che non sei.
Che tradire un sogno fa male.
Anche quando sai che é necessario.
E che forse non sarai capace di perdonarti.
Imparerai che, però, i tuoi sogni saranno più forti,
che si trasformeranno con te.
Lo sentirai quando la pioggia ti aiuterà a pensare.
Oppure quando dovrai averne paura.
La pioggia è leale,
come le lacrime.
Le foglie che cadono,
il sole che spunta all’improvviso.
Lo capirai, che diventare grandi è difficile,
ma che varrà sempre la pena farlo.
Uno dei motivi è proprio lì,
sono i tuoi occhi.

La sete di giudizio

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Continuo a pensare che i social rappresentino un canale in grado di raggiungere moltissime fasce di popolazione, per certi versi in modo più profondo della televisione. Inevitabile che si cerchi il modo di influenzare e rendere i messaggi sempre più targhettizzati. Siamo chiari, il tanto temuto “tracciamento” parte dal reciproco controllo tra utenti, dall’analisi delle cose che piacciono o che non piacciono, dalle reazioni, gusti, luoghi frequentati. Uno studio così fedele e anche a noi serve, ma che ci pone in una condizione di essere nudi di fronte a questa nuova tecnologia. I protocolli di tracciamento, il misterioso e fantomatico 5G, viaggiano in quest’ottica di inevitabile assueffazione alla tecnologia. Io non potrei farne a meno, lo sapete. Ma sono solito ripetere che io sono nato nell’epoca del vinile, pertanto ho la fortuna di aver visto la mutazione della tecnologia analogica in quella digitale e averne apprezzato pregi e difetti di entrambe. Lo “spionaggio” è sempre esistito, seguiva solo regole diverse, ma oggi siamo noi a desiderare di essere spiati, a voler far sapere agli altri chi siamo e cosa facciamo, convinti che sia un modo efficace per farci conoscere e facendo finta di non sapere che ci stiamo esponendo solo a essere giudicati. In fondo si tratta di una forma di dipendenza, quella che ci lega a questo mondo virtuale, quella che ci impedisce di scomparire e vivere la vita serenamente e senza ossessionarci nel cercare pareri altrui o scriverne di nostri. Io me lo chiedo spesso perché continuo a comunicare, a chi sto parlando, se chi penso mi stia ascoltando lo faccia poi veramente. E la gran parte delle volte non trovo delle valide risposte, nel tempo il pubblico dei social è cambiato, si sposta da una piattaforma all’altra, sparisce perché si è annoiata. Perché mi pongo queste domande? Perché scrivo da sempre i miei pensieri, semplicemente perché mi piace farlo, ma chi scrive deve avere un motivo, dice Liga, ma anche un lettore. A volte, però, mi sembra di essere solo giudicato, più che letto. E so che questo è parte del gioco, ma riesco a sopportarlo sempre meno, questo perché non ci sono dialoghi da fare, si tratta solo di una condizione da subire. Questo non può essere un modo per comunicare in maniera trasparente. Non può che portarci a mettere in scena un programma che rappresenta ciò che gli utenti dei social vogliono sentire. Non ciò che si pensa. Ed è qui che nasce la targhettizzazione, l’influenza, in qualche modo il controllo. Dalla sete di giudicare.

Perché non credo minimamente alla tesi complottistica legata al Covid-19

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Non credo alla tesi complottistica legata al Covid-19. Ovviamente parlo da “scrittore” di trame che più volte hanno toccato tesi geopolitiche. Sia ben inteso, penso che qualche mistero sullo sviluppo del virus ci sia. Ma quando leggo post strampalati che parlano di virus costruiti per arrivare a un controllo globale della popolazione attraverso le aziende farmaceutiche, mi viene spontaneo analizzarne una possibile trama. Eh, no. Non funziona. Non può funzionare perché il terreno non è adatto, lo sviluppo del virus passa attraverso apparati politici dei paesi che sono troppo diversi per poter essere utilizzati come piattaforma di controllo. I meccanismi sanitari esistenti sono troppo diversi tra i vari paesi da rendere praticamente impossibile costruire un sistema di controllo attraverso una piattaforma unica vaccinale. Inoltre è evidente che per obbligare tutta la popolazione, o gran parte di essa, basterebbe far leva su un aggiornamento di quelle già esistenti, magari obbligando a dei richiami dei vaccini già somministrati.
Credo ancora meno alla tesi del 5-G, ma dal punto di vista geopolitico è sicuramente più spendibile per una trama. Partiamo dai protocolli di intesa tra gli sviluppatori della tecnologia e i vari paesi. Uno di questi riguarda proprio l’Italia. Per inserirsi in un mercato difficile come quello europeo e americano sarebbe stato certamente utile indebolirlo, situazione che il Covid-19 sicuramente ha fatto. Ma credo che la tecnologia del 5-G sarebbe comunque arrivata, posso quindi solo valutare un’accellerazione da parte di uno dei competitor. Eh, no, nemmeno questa tesi è convincente. Purtroppo resta la tesi più semplice, ovvero che questo virus si sia sviluppato per una mancanza di strategia difensiva dei vari paesi a questo tipo di criticità, questo senza nemmeno entrare nell’ottica della genesi del virus stesso, ipotizzando anche che sia completamente naturale, così come le ricerche dimostrano. E facendo finta, per un attimo, che le ricerche non possano essere strumentalizzate. Insomma, facciamo attenzione a quello che leggiamo, fantastichiamo pure, ma arrivare a dubitare dell’esistenza stessa del virus è irrispettoso nei riguardi di chi ha visto morire i pazienti, parenti. Non é stato un gioco, così come non lo è cercare di mitigare possibili picchi con i mezzi che abbiamo a disposizione. Parliamo, appunto, di mitigazione del rischio, per sua natura non potrà essere mai zero, quindi con buona certezza ci saranno altri casi. Quando finirà? Gli esperti dicono “quando ci sará un vaccino”. La corsa alla creazione e produzione é già iniziata. Molti paesi stanno già prenotando le dosi. Ecco, qui la geopolitica c’è. La mia trama inizierebbe proprio da qui.

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Quella storia siamo noi

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Non sono mai le storie degli altri a fare male, ma quelle che ti sono rimaste addosso, sulla pelle. Quelle non vanno via nemmeno sfregando sui tuoi tatuaggi. E che raccontano di te più di quanto tu stesso sia capace di fare. Non sono mai le storie che scriviamo a descriverci, ma quelle che portiamo dentro. Quelle che amiamo, odiamo, che non sappiamo spiegarci, che ci spaventano, illudono, ingannano, sfreggiano, eccitano, uccidono. Ma, che ci piaccia o meno, quella storia siamo noi. Con le sue luci. E tutte le sue ombre.

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Sull’orlo di uno schermo

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Ci abbiamo creduto tutti a un mondo migliore, che avremmo interpretato il ruolo principale nella commedia più attesa del calendario degli eventi. Che ci saremmo osservati attraverso lo specchio dei camerini, per ritrovare quello sguardo e quelle parole imparate a memoria dal copione. E restiamo qui, con quel biglietto tra le mani, in attesa di prendere posto nella sala del cinema, di guardarci attorno nella penombra per scoprire che non siamo soli. Il mondo è anche questo restare in bilico sull’orlo di uno schermo, come persi tra dimensioni troppo lontane e immagini di noi, che non riusciamo a riconoscere.

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